venerdì 3 febbraio 2017

Dust Kid

Joung Yu-mi (o Joung Yumi, trovo sempre affascinante l’eterografia di certi cognomi esteri, soprattutto orientali, come se una persona avesse un’altra identità), animatrice sudcoreana classe ’81, in una micro-storia autobiografica, queste le sue parole prese dal sito ufficiale (link): “quando comincio a fare i lavori di casa il mio cervello inizia a pensare e a riempirsi di preoccupazioni inutili, ma appena finisco tutto svanisce. Eppure so che le mie apprensioni prima o poi torneranno, esattamente come la polvere che ho appena spazzato via”.

Traslazione dei propri fantasmi, dunque, con uno stile che se possibile trascende il minimalismo, e perciò più che essenziale, scevro, linee di lapis su sfondo bianco: stop. Non c’è volutamente niente in Munjiai (2009), e giustamente aggiungo, perché è il Niente che sostanzia buona parte della vita dove le finestre di emotività sono spiragli disseminati ogni tanto sulla parete della routine: alzarsi, sentirsi infreddoliti, sistemarsi il letto, pulire, mettere in ordine, lavarsi, cucinarsi. L’uso del si riflessivo dovrebbe suggerirvi l’idea che in Dust Kid, e al di fuori di Dust Kid, non vi è molta compagnia, se non quella dell’angoscia. La Yumi non si affanna nel dirci queste cose, il suo pensiero vive in una biforcazione, è tenue il metodo espositivo, così come è greve il sottotesto che ha la qualità di darci del tu in una stretta confidenziale dalla quale non possiamo esimerci. Oso parlare di intimità e lo faccio: se la regista avesse optato per un approccio spettacolarizzante, cosa impossibile visto il tenore degli altri lavori personali (animati e non), di sicuro non avrebbe sortito effetti significativi sullo spettatore poiché sarebbe banalmente scaduta nella rappresentazione delle inquietudini ricorrendo a qualche bestiario del perturbante, invece in Munjiai tutto si riduce all’infinitesimale, sicché l’Afflizione è con intelligenza antropomorfizzata, e non con un essere umano a caso, bensì con il doppelgänger di noi stessi, miniaturizzato, reso insetto ricorsivo: il finale è condivisibile: non esiste discarica per la Sofferenza, né il cestino, né le fogne, l’unica possibilità è la convivenza.

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