lunedì 20 novembre 2023

Tentare bei cieli più tersi

Il 20 novembre del 2007 aprivo questo blog, oggi, esattamente sedici anni dopo, è arrivato il momento di chiuderlo. I motivi sono più che evidenti e ritengo non ci sia neanche bisogno di elencarli poiché credo di averlo già fatto in passato, ma, davvero, ormai sono quasi dieci anni che non ha senso alcuno scrivere qualcosa (qualunque cosa!) su questo tipo di piattaforme, il mondo è radicalmente cambiato e le informazioni viaggiano giustamente su altri canali a ritmi a dir poco infernali. Che cosa rimane, allora, dopo più di tre lustri passati a scrivere? Non lo so. Quello che so, o che almeno penso di sapere, è che, per quanto mi riguarda, si è trattato di un viaggio straordinario, un percorso di crescita, di formazione e di educazione per il quale non ho dubbi nell’affermare che senza oltre il fondo non sarei la persona che sono ora, non avrei la sensibilità che in qualche modo ritengo di aver sviluppato e non continuerei ad avere quel desiderio rivolto alla costante scoperta, alla comprensione ma anche allo smarrimento, al misurarmi con ciò che è più grande di me, al rimanere nascosto, al chiedere di essere accettato pur rimanendo distaccato, lasciato, forse disperso, e dire che tutto è iniziato con un bacio che non mi vide protagonista, poi una crisi sentimentale post-adolescenziale, un cumulo di terra che sembrava una montagna, il rifugio nella scrittura, il sollievo nel cinema, l’impegno costante, la passione, le connessioni virtuali e quelle reali, lo dissi a te perché doveva essere così, la difficoltà nel mantenere un equilibrio, il sentirmi obbligato a scegliere tra le parole e la realtà, certamente i miei errori, e poi la separazione, il ritorno al nido, ancora nella culla, un nuovo inizio, lui che iniziava a stare male, i rapporti svilenti, i viaggi, il rumore che non riuscii mai a decifrare in una foresta vicino a Chiang Mai, lui che piano piano continuava a peggiorare, un illusorio brillio all’interno di quei rapporti, una influencer giapponese che saliva su per le scale delle Batu Caves, lui che entrava ed usciva dagli ospedali, una vecchia prostituta che cercava di trascinarmi nella sua alcova a Itaewon, lei, la mia prostituta, che ancora mi voleva, l’Apocalisse, l’epidemia, il rinnovato piacere del cinema in una vita improvvisamente cristallizzata, lei che se ne andava, lui che andava via per sempre, io che rimanevo solo, piccolo, impaurito dal futuro, la lenta ricostruzione del sé, l’assestamento lavorativo, una casa, un altro Mondo che, senza rendermene conto, invadeva dolcemente il mio, piano piano, sentendomi abbracciato, diverso, sciolto: fino a sentire che le righe che sto scrivendo adesso davanti al mio computer saranno le ultime, fino a sentire, in un modo che non riesco spiegare bene, di essere sereno.

Ecco cosa è successo in questi sedici anni: ho vissuto anche quando non credevo di vivere e oltre il fondo è sempre stato qui, in una dimensione che allo stesso tempo ha saputo essere esplicitamente pubblica ma anche intima, davvero personale: non sono mai stato me stesso come lo sono stato su queste pagine. Quindi, al mio lettino da psicoanalisi fatto di etere, o ombra benevola o angelo custode in HTML, non posso che dire uno sconfinato grazie, ci sono state volte che ti ho odiato, ma come ho letto in un libro che si intitola  A/metà di Jasmin B. Frelih “a volte proviamo tanta rabbia nei confronti delle persone che amiamo. Verso gli altri non proviamo dei sentimenti così forti. Quando ci leghiamo, quando ci leghiamo davvero a qualcuno, nei legami si creano delle bolle nelle quali trovano posto le cose più crude”, ma, e ora permettetemi di scadere un attimo nel banale, lasciatemi ringraziare chi mi ha accompagnato durante il tragitto, adesso li chiamano followers, un tempo avevano un nome dal sapore molto più antico: i lettori, vi devo esprimere tutta la mia riconoscenza, anche se ormai non c’è praticamente più nessuno che legge, non posso che sentirmi grato del tempo dedicatomi, fosse stata anche una visita accidentale o un rapporto più fedele e duraturo, devo ripeterlo: è stata un’avventura bellissima ed è stato un vero onore avervi al mio fianco. 

E quindi adesso che cosa farò? Che cosa resterà di me? Sgomberando il campo da un principio di malinconia, penso che, semplicemente, tenterò di mantenere anche nella vita vera la medesima attitudine portata avanti fino ad ora, che è, in buona sostanza, la tendenza a non fermarsi mai alla superficie delle cose cercando di andare giù, nel profondo, è infatti questa la piccola missione che provo a fare mia ogni santo giorno. Non è facile perché il mondo circostante è una specie di enorme magnete che attira a sé l’ovvietà, tutto nasce e si consuma in modo effimero, giusto il tempo di una storia tra un reel e l’altro. Non mollate, non molliamo: io sono solo un povero scemo come mille altri, non so un cazzo di niente della parola “vivere”, annaspo col muso a qualche centimetro dall’acqua torbida, mi addormento assalito dai pensieri e al mattino è come se dovessi mettermi in fila per andare dal boia, eppure, al pari dei-mille-altri, ho, abbiamo, ancora un qualcosa che ci portiamo dentro e che curiamo con tutta l’attenzione che si dà a ciò che riteniamo importante, se saremo bravi a tenere duro, a non farci travolgere, allora avremo ancora una speranza che potremo proiettare nei corpi, e quindi nei cuori, delle persone che ci stanno vicino. Quindi, se resterà qualcosa di oltre il fondo, e perciò di me stesso, saranno dei piccoli semini al di fuori di lui e, pertanto, anche di me, che magari in un futuro germoglieranno in un altrove, però, se proprio devo dare un’immagine conclusiva ed esplicativa che possa chiudere questo cerchio cominciato nel 2007 e terminato nel 2023, devo citare una canzone uscita di recente che si chiama The Likes Of Us dei Lanterns On The Lake, non so se perché è bella fresca  e pertanto mi risuona nuova nelle orecchie o perché effettivamente è un pezzo che quasi mi commuove ad ogni ascolto, il fatto è che poco oltre i tre minuti il brano sale di intensità, si apre, sboccia, alla voce della cantante si aggiunge un violino che fa da alveo e che trasporta il cantato su un altro piano fino ad amalgamarsi in un unico suono e allora mi sembra quasi che una pioggia possa uscire dalla terra per ripulire il cielo, ed è proprio questo che vorrei rimanesse di oltre il fondo: una vibrazione che si propaga dolce, una sensazione che si fa ricordo, una memoria che pulsa da qualche parte, al di là dello spazio e del tempo, dove finalmente potremo incontrarci di nuovo.

Infine, desidero dedicare ogni singola parola che ho scritto nel blog a mio papà che un giorno ha deciso di tentare bei cieli più tersi. A lui va il mio pensiero, il mio ricordo e il mio amore: per tutto quello che in vita purtroppo non ci siamo detti e che magari, anche inconsapevolmente, sono riuscito a dirgli qua dentro.

I won’t let this spark die in me.

Promontorio

La luce si affievolisce e io penso alla merda, a tutta quella che, dal momento in cui veniamo al mondo, espelliamo grazie al nostro sfintere. Dopo infiniti peripli nelle tubature, montagne russe, capriole e giri della morte, dove finisce? Dove sono finiti tutti gli escrementi che fin da quando ero un bimbo mamma e papà ripiegavano nel pannolino e che poi, crescendo, sono stati risucchiati dai gorghi dei cessi sui quali mi sono seduto? Credo che, semplicemente, siano finiti in mare, o al massimo in un fiume che poi, nel prolungamento del viaggio, tra strette anse e cascatelle, ha portato le mie feci verso la libertà acquea. Ora, tenendo conto che io ho sempre vissuto nella medesima città e che in trentasei anni di vita avrò defecato almeno tredicimila volte, penso al fatto che c’è molto, ma davvero molto di me, nello specchio d’acqua che ogni mattina vedo affacciandomi alla finestra. Certo, delle deiezioni di quando avevo dieci o venti anni non sarà più rimasto granché, tutto si sarà sfibrato, sfilacciato, dissolto nelle profondità marine oppure inghiottito dai golosi cefali (e quindi immesso di nuovo in mare attraverso le loro cacchine filamentose), tuttavia mi piace immaginare che ogni stronzo o stronzetto che ha abbandonato il mio corpo, una volta riunitosi nei fondali con i propri simili, sia stato capace di riagglomerarsi perché distrutto dalla nostalgia dell’organicità, e che io abbia cagato a Napoli, a Tokyo o a Barcellona, poco importa, la mia merda è riuscita a viaggiare dentro gli oceani per compattarsi proprio lì vicino dove vivo, questo è quello che penso mentre il buio si allunga nella mia camera e fuori le donne anziane con le vene varicose ciondolano di qua e di là tenendo in mano borse della spesa di plastica tese fino al limite dai loro pesanti contenuti.

A fianco del mio appartamento vive una ragazza madre che si chiama Aisha, è eritrea, etiope o somala, le vorrei chiedere se da giovane nel suo Paese è stata infibulata e se sì come ha fatto a rimanere incinta e poi a partorire, ma finora non sono riuscito ancora a chiederle nulla perché credo di amarla e l’idea di tentare un qualsiasi approccio mi fa sentire un totale imbecille, l’unica occasione in cui è avvenuto una specie di contatto è stato quando durante un’assemblea di condominio Aisha ha preso parola davanti a tutti dicendo che da un po’ di tempo è molto spaventata perché è capitato diverse volte che qualcuno le abbia suonato al campanello nel cuore della notte e che guardando dallo spioncino abbia visto una figura maschile incappucciata ferma sul pianerottolo, e dicendo queste cose i nostri sguardi si sono per un attimo incrociati e io le ho fatto un mezzo sorriso ma non sono riuscito a vedere se sia stato corrisposto, nel frattempo, di sera, prima di addormentarmi, appoggio sempre l’orecchio alla parete cercando di captare qualcosa, una voce, la tv, l’acqua della doccia che scorre. La sua bimba ha appiccicato lungo le scale una serie di stickers a forma di unicorno che si illuminano al buio, quando sono ubriaco marcio e ritorno a casa barcollando quegli adesivi sono le mie stelle e la mia bussola, senza di loro, senza di lei, sarei perso.

L’altro giorno sono stato da una prostituta cinese, ho trovato il numero su un sito di annunci, ho chiamato e mi ha risposto una voce delicata che mi ha fornito l’indirizzo preciso dell’abitazione, così mi sono presentato puntuale all’appuntamento con in bocca un gomma alla menta extra forte, la donna che mi ha aperto la porta avrà avuto almeno cinquant’anni, piccola, con la frangetta, tutta nervi e finti sorrisi, era la mamasan che prendendomi per mano mi ha portato nel cesso facendomi capire che avrei dovuto aspettare lì fino a che in camera il cliente prima di me non avesse finito. Certo che sentivo un vuoto, e guardando quelle piastrelle che mi ricordavano il bagno di mia nonna il vuoto era diventato una voragine, una parte di me voleva andare via, l’altra, appena la mamasan è riapparsa sulla soglia, mi ha spinto a percorrere il corridoio che terminava nella camera da letto, dentro c’era una ragazza con addosso della lingerie dozzinale, la mamasan le ha detto qualcosa in cinese (forse che desideravo fare i preliminari scoperti) e poi è uscita, la ragazza allora in un misto tra italiano e inglese mi ha detto di essere coreana, sentendo ciò le ho risposto che anni fa ero stato a Seul, non credo abbia capito come io non ho capito perché doveva vendersi per ciò che non era, e a questa cosa ci ho pensato ancora dopo una volta uscito da lì con cinquanta euro in meno nel portafoglio: che differenza avrebbe fatto se fosse stata indonesiana, mongola o thailandese? Poi ho pensato che anche a Seul, nella zona di Cheonho, una specie di risposta orientale alle vetrine olandesi, ero stato con una prostituta che mi aveva detto di essere cinese. Questo vuoto, questa faglia che ci portiamo nello stomaco, non se ne va via con una banale eiaculazione, è una roba che ti agguanta l’anima e giorno dopo giorno ti divora da dentro. Kafka aveva capito tutto, noi non abbiamo capito niente.

Io non ho molti ricordi di infanzia, ma ne ho uno apparentemente anodino che però è come un quadro appeso nella parete della mia memoria: è estate, io sono in macchina con i miei genitori, dalla radio viene fuori La mia banda suona il rock di Fossati, non capisco niente di quelle parole ma il ritmo che la fa vibrare mi permette di sentire una tremenda nostalgia verso il futuro perché poi, vent’anni dopo, riascoltando quella canzone proverò un senso di malinconia nei riguardi del passato, ma prima vedo mio padre che scende giù dalla salita con una borsa frigo rigida, dentro deve esserci qualche bibita, forse una birra e l’insalata di riso più qualche panino con il prosciutto nel caso avessimo ancora fame, sulla spalla sinistra ha imbracciato l’ombrellone riposto nella sua federa, mamma mi tiene per mano, ha dei sandali da cui spuntano le sue unghie smaltate di rosso, però lo smalto è un po’ sbeccato e ora che ripenso a questo piccolo dettaglio sono pervaso da una specie di tenerezza, mi sembra che l’irregolarità dello smalto sia il simbolo della nostra posizione sociale, e prima ancora, prima di partire per il mare, sono nel letto della mia cameretta che di notte mi appare immensa, la sera ho visto una trasmissione su Italia 1 che parlava di rapimenti alieni, mi immagino cosa potrebbe accadere se dalla porta sbucasse una mano fosforescente e io, immobilizzato dalla paura, venissi trascinato via e portato a bordo del disco volante per essere usato come cavia nei loro esperimenti, dopo, dopo il mare, ritorniamo indietro e io ho un sonno che quasi mi sento morire, adesso la radio passa Oro di Mango o Con il nastro rosa di Battisti, non ce la faccio più, chiudo gli occhi e li riapro davanti ad uno schermo dove una donna è attorniata da una decina di uomini che si masturbano in cerchio.

Non ho dubbi nel dire che la mia parola preferita in inglese è coping, e si tratta di una parola che avevo completamente rimosso fino a che, durante una convention nazionale dell’azienda per cui lavoro, è di colpo tornata a galla e lo ha fatto per merito di una sedia a rotelle, o meglio di una persona seduta su questa sedia, ed è andata così: sul palco il presidente stava parlando di fatturato, di crescita, di investimenti e chissà di che altro, tutto ciò fino a quando verso la fine del suo intervento ha chiesto ad un nome e cognome che non sono riuscito a captare di raggiungerlo sul palco, a quel punto alla mie spalle si è fatto largo un cigolio che mi ha spinto a girarmi per vedere avanzare sulla moquette una carrozzina condotta da un giovane dal sorriso emozionato, e lì sopra uno scheletro con un po’ di pelle attaccata, un uomo avvolto in un montone oversize quando nella sala ci saranno stati almeno venti gradi, giunto dinnanzi al presidente l’ex commercialista, perché di questo si trattava: un professionista che all’epoca aveva dato una grossa mano per l’apertura della società, ha ricevuto il microfono e con una fatica che io e tutti gli altri siamo riusciti a percepire come se fosse la nostra, ha diffuso la sua voce a singhiozzo in tutta la platea, e ciò che è uscito dall’impianto di filodiffusione è stata una specie di carezza perché l’uomo ha detto con grande trasparenza che era molto contento di essere lì con noi e che ci voleva davvero bene. Uscendo ho ripensato al fatto che con ogni probabilità non avrei mai più rivisto quel signore e che per ragioni che non hanno nulla a che fare con me o con i miei colleghi, anche io, nello spazio di quel contatto sfuggente, ho sentito di volergli bene.

L’oscurità è ormai una campana di vetro che mi imprigiona, ho deciso che sarebbe stato questa sera perché ho rimandato per troppe sere, praticamente tutte quelle della mia vita fino ad oggi. Così mi sono guardato allo specchio e nel riflesso ho rivisto mio padre, poi ho messo una felpa col cappuccio, ho preso le chiavi della macchina e ho lasciato quelle di casa appese al chiodino vicino all’attaccapanni. Uscendo ho schiacciato il campanello di Aisha, quella breve scossa elettrica ha risuonato nelle scale come un raggio laser alieno, ho giusto sentito i suoi passi incalzinati arrivare fino alla porta e poi sono andato via. La città ancora intrisa di buio è così come l’ho sempre vista: una frontiera sopravvissuta ad un attacco nucleare, non c’è nient’altro intorno se non macerie e detriti dove si nascondono relitti umani che si iniettano in corpo le peggiori droghe o che succhiano i peggiori cazzi in cambio di qualche spicciolo, vorrei essere cieco, vorrei poter volare via ma in mancanza di ali, e quindi del cielo, dovrò accontentarmi dell’abisso. Sono arrivato lì dove una macchia verde inizia a digradare dolcemente verso il mare, mi sono spogliato di tutto e l’erba ha cominciato a condurmi in basso fino a che la sua consistenza filacciosa ha lasciato il posto alla rotondità dei sassolini che da asciutti si sono fatti bagnati, così come sono bagnate le mie caviglie, le mie tibie, adesso anche i miei testicoli che si ritraggono per il freddo. Ho quindi proseguito il mio cammino e anche quando l’acqua mi ha sfiorato le narici fino a farmi scomparire, ho scoperto che potevo respirare sotto la superficie e che la gravità proseguiva il suo lavorio fisico anche sul fondo del mare, allora ho camminato lungo un sentiero illuminato da pesci lanterna, le mie stelle, la mia bussola, fino a giungere su uno scoglio piatto dove mi sono raccolto in posizione fetale, dopo un periodo che potrebbe essere di un giorno come di cento anni, ho sentito un abbraccio che mi ha avvolto da dietro, non ci ho messo molto a capire che il mio me-merda era finalmente tornato al suo corpo originale, e questo mio fantoccio escrementizio avvicinandosi all’orecchio mi ha detto con fare materno che adesso non dovevo più preoccuparmi di nulla, che non c’era più niente da cercare o da scrivere, che adesso c’era solo da aspettare la Fine.

sabato 18 novembre 2023

Noche En El Jardín Salvaje

Un cortometraggio in cui il regista costringe il proprio fratello ad essere un cartone animato all’interno di un mondo surreale e notturno.

Le poche (e uniche) righe che accompagnano Noche En El Jardín Salvaje (2015) dicono comunque tutto quel che c’è da dire, che è sostanzialmente niente perché nei sei minuti di girato non succede alcunché di meritevole, se non, ma questa è solo una deformazione professionale che mi spinge a visionare più titoli possibili di un dato regista senza che vi sia una concreta motivazione di fondo, la constatazione che Miguel Llansó, aiutato dal fratello Guillermo che ha sempre orbitato nelle sue produzioni, è un tipo eclettico, oltre che abbastanza fuori di senno, e che quando non è in giro per l’Etiopia a filmare situazioni e personaggi assurdi (ricordo il coevo Crumbs), il suo tasso di bizzarria non viene meno, anzi, se ripensiamo al precedente Perro Líquen (2012) e lo rapportiamo a Noche... ecco che abbiamo una “bella” coppia di lavori imperscrutabili. Qui l’accorgimento che visivamente spicca è l’utilizzo del timelapse (o è stop-motion? Mica so riconoscere bene la differenza...) praticamente per ogni fotogramma, il che incrementa l’atmosfera stramba del corto già assestata su un livello alto con il protagonista dotato di parruccona bianca, tunica e occhiali da carnevale. Il soggetto in questione dialoga con una voce off a proposito di un pregevole suono ascoltato un anno prima e che entrambi vorrebbero tanto risentire, nell’attesa il cielo notturno è solcato da stelle cadenti e le fronde del bosco ondeggiano per il vento, c’è un senso notturno, un odore nemorale, forse, ma proprio forse, anche una sottile inquietudine bilanciata da dosi di ironia (“il prossimo anno sarò in vacanza in Tunisia”), ma nello specifico cosa sia il suddetto giardino selvaggio, che cosa dica o faccia il tipo imparruccato o più in generale quale siano i perché e i percome di questo lavoro breve sono quesiti ai quali non sono minimamente in grado di rispondere.

venerdì 17 novembre 2023

Dakar

Atene è avvolta da una notte ferma, le luci del Pireo, il mare e un anziano uomo che si aggira per la città ascoltando una vecchia registrazione.

Dakar (2020) è un cortometraggio che non ha nessuna qualità capace di farmi sobbalzare sulla sedia, è un lavoro che ha le sue caratteristiche ben definite alle quali riconosco una rispettabile professionalità, ma che resta congelato nella sterminata galassia delle produzioncine festivaliere, nello specifico fu il Thessaloniki International Film Festival. Stelios Moraitidis, il suo regista classe ’90 il cui film precedente, Deconstructing Interruption (2016), dovrebbe essere una sorta di backstage dell’Interruption (2015) di Yorgos Zois, si gioca la carta epistolare utilizzando il cinema come contenitore di emozioni impresse su una missiva che materialmente non esiste più se non nel nastro di una vecchia cassetta, il punto, però, sta per chi scrive proprio nel concetto di “contenitore”, l’impressione è che la settima arte qui sia esclusivamente usata come un recipiente: giro una storia su un amore passato finanche perduto e lo riverso in uno spazio filmico di dieci minuti scarsi, bon. Mi è mancata una valida tessitura tra la sezione chiamiamola narrata e la scelta delle immagini urbane, di questo vagare per Atene da parte del protagonista. Non è una roba facilissima da spiegare quella che voglio esprimere, di opere che hanno un’impostazione similare a Dakar ne sono passate parecchie da queste parti, e alcune, di cui non farò i nomi per non ripetermi ma l’origine, l’archè, rimane e rimarrà per sempre Chris Marker, avevano una concertazione, un senso di insieme, di meraviglia, di energia che Moraitidis non è riuscito a imprimere. Io ci ho visto solo la superficie, ovvero un vecchio che vive il presente nel rimpianto del passato mentre intorno a lui il mondo continua a scorrere incurante, ed è, appunto, una superficie che pare anche un tutto, ma non in un’ottica totalizzante, un tutto di ordinaria levatura.

giovedì 16 novembre 2023

Notturno

Be’, che non mi si venga a dire che Notturno (2020) non è la proiezione del suo predecessore Fuocoammare (2016), una simmetria, un riflesso, ok: ci sono delle divergenze ma preferisco partire da ciò che converge e in tal senso c’è un netto allineamento intellettuale compiuto da Gianfranco Rosi: il film ambientato a Lampedusa metteva a... fuoco (pardon) il problema-migranti, che poi lo facesse bene o male è un discorso che forse non sono riuscito a chiarire nemmeno a me stesso, però è innegabile che il topic della migrazione fosse il suo nodo centrale, l’opera girata tra Siria, Iraq e altri Paesi limitrofi non fa altro che andare alla radice del “problema” appena citato, e lo fa senza scivolare su un confronto lampante, senza spiattellare la faccenda in faccia allo spettatore, ed è allora qui che non si può fare a meno di chiedersi quante donne o uomini siriani, kurdi o libanesi si trovavano su quel barcone in Fuocoammare nella “famosa” sequenza della stiva, da questa angolazione Notturno è la premessa, l’antefatto umano che, peraltro, non smette di essere tale visti i continui flussi verso l’Italia. Quanto mi preme dire in sostanza è che nel collegamento tra i due documentari quello più recente si dimostra pudico nel mostrare i drammi di quelle zone, i conflitti ci sono ma solo oltre un orizzonte da cui provengono funerei rimbombi, la morte c’è ed è ovunque ma ’sta volta resta fortunatamente fuori campo, o al massimo sgorga dalle lacrime delle madri che visitano le carceri dove hanno torturato e ucciso i loro figli, oppure nei disegni dei bambini sopravvissuti alle terribili angherie dell’ISIS. In generale ritengo apprezzabile questo sottrarsi di Rosi alla frontalità della tragedia, questo suo interessarsi ai pezzetti di un mosaico marginale, d’altro canto le indicazioni geografiche ci parlano solo di zone di contiguità, alla fine paga abbastanza, o perlomeno paga molto di più rispetto a quando il mirino della cinepresa era puntato esclusivamente su un unico obiettivo, vedi il sopravvalutato Sacro GRA (2013).

Trattandosi di Rosi sappiamo che il livello estetico non può che assestarsi su un piano elevato, per alcuni critici forse troppo elevato al punto da creare uno scollamento tra la forma e il contenuto. In effetti, se si esclude il lavoro giovanile Boatman (1996), il cinema di questo autore ha subito un progressivo processo di estetizzazione tanto da trovarmi d’accordo con le parole di Leonardo Gregorio nella sua recensione su Gli Spietati (link) nella quale viene proposto un parallelo solo in apparenza azzardato con Paolo Sorrentino. Quando la patinatura di una pellicola prende il sopravvento su tutto il resto si ha come la sensazione che le tematiche affrontate si inaridiscano di fronte ad una messa in scena tirata ostinatamente a lucido, non so se sia un’impressione errata o un pensiero troppo intransigente, fatto è che in Notturno (e, dato che è stata una visione recentissima, anche, ad esempio, in È stata la mano di Dio, 2021) le immagini a tratti prevaricano sui possibili significati, non è che li inglobano in sé, li schiacciano proprio, il che non sarebbe affatto un difetto per certi esemplari cinematografici (e infatti per Sorrentino la riflessione è meno calzante), ma qui, in una prospettiva che si prefigge di cogliere la realtà, e nello specifico una realtà dura, difficile, complessa, una ricerca formale di tal fatta genera una sorta di idiosincrasia, come se l’urgenza di quei luoghi venisse coperta da una bellezza che forse non era così necessaria.

Non so, Rosi continua a mettermi in difficoltà, ma non è un mettermi alla prova, non è un cimentarsi con qualcosa di arduo da vedere, da capire, è più un ragionare senza troppa convinzione su un risultato che altrove produce risultati di ben altro spessore attraverso metodi meno appariscenti (penso sempre a Sylvain George), ciò non toglie che comunque qui vi siano scampoli di lucore che sono felice di aver visto, a prescindere dalle modalità espositive non capita tutti i giorni di entrare dentro ad un manicomio a Baghdad oppure ascoltare i messaggi vocali di una donna rapita dall’ISIS inviati alla mamma. Quindi non c’è un quindi e neanche una conclusione, Rosi è un signor professionista e questa è la sua idea di settima arte, nello sterminato panorama contemporaneo mantiene una posizione rispettabile, l’importante è sapere che esiste anche dell’altro.

mercoledì 15 novembre 2023

The Second Best

The Second Best (2013) è un altro lavoro pre-Crumbs (2015) del madrileno Miguel Llansó che bazzica i territori etiopi, ma, almeno per ciò che il sottoscritto ha potuto visionare, è anche il suo titolo più ordinato, più lineare, qui non ci sono slanci nel distopico o nel para-grottesco, tutt’altro, l’attenzione di stampo realista è rivolta a Wami Biratu, un maratoneta nato in Etiopia oscurato dalla leggenda di Abebe Bikila, il corridore che nell’epica maratona di Roma 1960 tagliò il traguardo... scalzo. Bikila è mancato nel ’73 a causa di un’emorragia celebrale, mentre Biratu nel momento in cui sto scrivendo queste righe (dicembre 2021) dovrebbe essere ancora vivo e vegeto, del resto nelle immagini di Llansó che lo riprendono già ultranovantenne lo vediamo in formissima impegnato in quella che viene definita come la sua ultima gara circondato dall’affetto degli altri partecipanti. È indubbiamente una bella storia di sport che mi ha ricordato un altro cortometraggio molto simile, sia per fattura che per tematiche, dal nome 42,195 Km (2010), in entrambi è agevole constatare che la narrazione sportiva esposta scavalla in qualcosa di più ampio che riguarda la Storia umana e sociale di un Paese e delle persone che lo abitano. Quindi, ok che il racconto è piacevole da ascoltare e da conoscere, ma per quanto concerne ciò che più ci interessa, ovvero il cinema, come siamo messi?

Eh, insomma, non proprio alla grande mi pare. Va bene che il regista spagnolo darà il meglio di sé nei due lungometraggi successivi, però anche nei suoi esemplari giovanili, seppur caotici e raffazzonati, permaneva sempre una qualche scintilla di estro (vedi Chigger Ale, 2013), in The Second Best il discorso è decisamente semplificato fino, me lo si conceda, ad essere appiattito. Non vi è la minima ricerca concettuale né l’interesse a vivacizzare la scena, l’intento è chiaramente quello di fornire il ritratto biografico di un atleta che al di fuori dei confini nazionali non ha mai ricevuto i riconoscimenti che meritava (a precisa domanda Bikila rispose che lui era il “migliore secondo” in Etiopia, lasciando piuttosto sgomenti i cronisti che Biratu non sapevano chi accidenti fosse), se ad uno spettatore tanto basta allora è libero di accomodarsi, per gli affamati visioni vere allora è meglio direzionarsi altrove.

martedì 14 novembre 2023

Bait

Quest’operazione di chirurgia estetica inversa mirata a invecchiare il paziente-film e non a ringiovanirlo, è una scelta che ha le sue radici negli interessi personali del regista Mark Jenkin, uno a cui piace molto di più la resa in video analogica rispetto a quella digitale. Io concordo però, seppur Bait (2019) possegga un aspetto anomalo, non si può certo dire che risulti seminale, sono infatti innumerevoli gli esemplari filmici che in passato hanno adottato un’impostazione simile, ciononostante l’opera ha un che di “curioso” se vista nella sua completezza, curiosità che nasce a mio avviso dal seguente contrasto: il racconto di una contemporaneità attraverso modalità apparentemente antiche. Il vestito che Jenkin ha cucito per Bait è difatti tutto sdrucito, slabbrato, imperfetto, pieno di finte abrasioni che sembrano fare della pellicola un ritrovamento da soffitta, tuttavia non ci vuole granché ad apprendere di come la vicenda ruoti intorno al polo magnetico della quotidianità, il denaro, e alle infinite diramazioni che da esso si irradiano, in particolare mi è parso che al filmmaker stia molto a cuore il discorso della tradizione incarnato dal pescatore Martin tallonato dai sintomi di una modernità non sana come la ricerca spasmodica di creare turismo, e quindi guadagno, in una zona dove il turismo non c’era mai stato (siamo in una piccola comunità costiera della Cornovaglia). Fissato a mente il quadro generale la domanda da porsi è: quanto è funzionale l’apparato formale imbastito da Jenkin per esporci la sua storia? Nel senso, ciò che ci ha proposto sarebbe potuto esistere anche con una forma più classica? Sono indeciso. La visione in sé è stata altalenante, se in alcuni frangenti ho percepito una valida concertazione, in altri no e lo spettro di uno sterile pavoneggiarsi si è fatto avanti.

Paradossalmente gli aspetti che più mi hanno impressionato sono anche quelli che ho trovato potenzialmente più criticabili, dal punto di vista della sintassi il flusso che riceviamo colpisce con discreta efficacia, è tangibile un’attenzione quasi maniacale per non dire ossessiva ai dettagli (sulle banconote e sui pesci, due istanze messe in dialogo visivo seguendo la traccia menzionata prima passato vs. presente/futuro) oltre che una serie di accorgimenti non proprio convenzionali, prendiamo l’insistenza sui primi piani che fanno del film una specie di western acquatico d’oltremanica o l’impianto sonoro che è stato inserito in toto in fase di post-produzione. Insomma, tira un’aria inusuale eppure, almeno per il sentire del sottoscritto, non si riesce a sfondare la porta della straordinarietà, è come se una volta tirata via questa corteccia artificiale Bait riveli una nudità meno interessante della sua stessa superficie, ché se qui c’era da riflettere sul capitalismo e derivati concettualmente non riesco a catalogare lo sforzo di Jenkin come memorabile, apprezzabile all’incirca sì, ma memorabile no.