tag:blogger.com,1999:blog-53761710915481702672024-03-29T01:14:06.658+01:00oltre il fondoEraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.comBlogger1922125tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-77225671972032921182023-11-20T10:20:00.003+01:002023-11-20T10:20:00.136+01:00Tentare bei cieli più tersi<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjcLOb9NS6UbDskZ3mi14SeMGyVBi6yrd1Be9N8FJuDSdIL2XYxQtXVyvWkjkhHKNHzilXDtjzMdbi5bx-pr6M-GjSsCXCeG5zH7kc8AvumcfkAGVoDvNJcI47V-fWrfQCPuWl7kbwg7I62mrqPJ7SArNNkxn9QtPF3b3xsA8sjy5G51yE9RdZccXqQ8tc/s2048/hopper.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1241" data-original-width="2048" height="231" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjcLOb9NS6UbDskZ3mi14SeMGyVBi6yrd1Be9N8FJuDSdIL2XYxQtXVyvWkjkhHKNHzilXDtjzMdbi5bx-pr6M-GjSsCXCeG5zH7kc8AvumcfkAGVoDvNJcI47V-fWrfQCPuWl7kbwg7I62mrqPJ7SArNNkxn9QtPF3b3xsA8sjy5G51yE9RdZccXqQ8tc/w381-h231/hopper.jpeg" width="381" /></a></div><div style="text-align: justify;">Il 20 novembre del 2007 aprivo questo blog, oggi, esattamente sedici anni dopo, è arrivato il momento di chiuderlo. I motivi sono più che evidenti e ritengo non ci sia neanche bisogno di elencarli poiché credo di averlo già fatto in passato, ma, davvero, ormai sono quasi dieci anni che non ha senso alcuno scrivere qualcosa (qualunque cosa!) su questo tipo di piattaforme, il mondo è radicalmente cambiato e le informazioni viaggiano giustamente su altri canali a ritmi a dir poco infernali. Che cosa rimane, allora, dopo più di tre lustri passati a scrivere? Non lo so. Quello che so, o che almeno penso di sapere, è che, per quanto mi riguarda, si è trattato di un viaggio straordinario, un percorso di crescita, di formazione e di educazione per il quale non ho dubbi nell’affermare che senza oltre il fondo non sarei la persona che sono ora, non avrei la sensibilità che in qualche modo ritengo di aver sviluppato e non continuerei ad avere quel desiderio rivolto alla costante scoperta, alla comprensione ma anche allo smarrimento, al misurarmi con ciò che è più grande di me, al rimanere nascosto, al chiedere di essere accettato pur rimanendo distaccato, lasciato, forse disperso, e dire che tutto è iniziato con un bacio che non mi vide protagonista, poi una crisi sentimentale post-adolescenziale, un cumulo di terra che sembrava una montagna, il rifugio nella scrittura, il sollievo nel cinema, l’impegno costante, la passione, le connessioni virtuali e quelle reali, lo dissi a te perché doveva essere così, la difficoltà nel mantenere un equilibrio, il sentirmi obbligato a scegliere tra le parole e la realtà, certamente i miei errori, e poi la separazione, il ritorno al nido, ancora nella culla, un nuovo inizio, lui che iniziava a stare male, i rapporti svilenti, i viaggi, il rumore che non riuscii mai a decifrare in una foresta vicino a Chiang Mai, lui che piano piano continuava a peggiorare, un illusorio brillio all’interno di quei rapporti, una influencer giapponese che saliva su per le scale delle Batu Caves, lui che entrava ed usciva dagli ospedali, una vecchia prostituta che cercava di trascinarmi nella sua alcova a Itaewon, lei, la mia prostituta, che ancora mi voleva, l’Apocalisse, l’epidemia, il rinnovato piacere del cinema in una vita improvvisamente cristallizzata, lei che se ne andava, lui che andava via per sempre, io che rimanevo solo, piccolo, impaurito dal futuro, la lenta ricostruzione del sé, l’assestamento lavorativo, una casa, un altro Mondo che, senza rendermene conto, invadeva dolcemente il mio, piano piano, sentendomi abbracciato, diverso, sciolto: fino a sentire che le righe che sto scrivendo adesso davanti al mio computer saranno le ultime, fino a sentire, in un modo che non riesco spiegare bene, di essere sereno.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Ecco cosa è successo in questi sedici anni: ho vissuto anche quando non credevo di vivere e oltre il fondo è sempre stato qui, in una dimensione che allo stesso tempo ha saputo essere esplicitamente pubblica ma anche intima, davvero personale: non sono mai stato me stesso come lo sono stato su queste pagine. Quindi, al mio lettino da psicoanalisi fatto di etere, o ombra benevola o angelo custode in HTML, non posso che dire uno sconfinato grazie, ci sono state volte che ti ho odiato, ma come ho letto in un libro che si intitola <i> A/metà</i> di Jasmin B. Frelih “a volte proviamo tanta rabbia nei confronti delle persone che amiamo. Verso gli altri non proviamo dei sentimenti così forti. Quando ci leghiamo, quando ci leghiamo davvero a qualcuno, nei legami si creano delle bolle nelle quali trovano posto le cose più crude”, ma, e ora permettetemi di scadere un attimo nel banale, lasciatemi ringraziare chi mi ha accompagnato durante il tragitto, adesso li chiamano followers, un tempo avevano un nome dal sapore molto più antico: i lettori, vi devo esprimere tutta la mia riconoscenza, anche se ormai non c’è praticamente più nessuno che <i>legge</i>, non posso che sentirmi grato del tempo dedicatomi, fosse stata anche una visita accidentale o un rapporto più fedele e duraturo, devo ripeterlo: è stata un’avventura bellissima ed è stato un vero onore avervi al mio fianco. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">E quindi adesso che cosa farò? Che cosa resterà di me? Sgomberando il campo da un principio di malinconia, penso che, semplicemente, tenterò di mantenere anche nella vita vera la medesima attitudine portata avanti fino ad ora, che è, in buona sostanza, la tendenza a non fermarsi mai alla superficie delle cose cercando di andare giù, nel profondo, è infatti questa la piccola missione che provo a fare mia ogni santo giorno. Non è facile perché il mondo circostante è una specie di enorme magnete che attira a sé l’ovvietà, tutto nasce e si consuma in modo effimero, giusto il tempo di una storia tra un reel e l’altro. Non mollate, non molliamo: io sono solo un povero scemo come mille altri, non so un cazzo di niente della parola “vivere”, annaspo col muso a qualche centimetro dall’acqua torbida, mi addormento assalito dai pensieri e al mattino è come se dovessi mettermi in fila per andare dal boia, eppure, al pari dei-mille-altri, ho, abbiamo, ancora un qualcosa che ci portiamo dentro e che curiamo con tutta l’attenzione che si dà a ciò che riteniamo importante, se saremo bravi a tenere duro, a non farci travolgere, allora avremo ancora una speranza che potremo proiettare nei corpi, e quindi nei cuori, delle persone che ci stanno vicino. Quindi, se resterà qualcosa di oltre il fondo, e perciò di me stesso, saranno dei piccoli semini al di fuori di lui e, pertanto, anche di me, che magari in un futuro germoglieranno in un altrove, però, se proprio devo dare un’immagine conclusiva ed esplicativa che possa chiudere questo cerchio cominciato nel 2007 e terminato nel 2023, devo citare una canzone uscita di recente che si chiama <i>The Likes Of Us</i> dei Lanterns On The Lake, non so se perché è bella fresca e pertanto mi risuona nuova nelle orecchie o perché effettivamente è un pezzo che quasi mi commuove ad ogni ascolto, il fatto è che poco oltre i tre minuti il brano sale di intensità, si apre, sboccia, alla voce della cantante si aggiunge un violino che fa da alveo e che trasporta il cantato su un altro piano fino ad amalgamarsi in un unico suono e allora mi sembra quasi che una pioggia possa uscire dalla terra per ripulire il cielo, ed è proprio questo che vorrei rimanesse di oltre il fondo: una vibrazione che si propaga dolce, una sensazione che si fa ricordo, una memoria che pulsa da qualche parte, al di là dello spazio e del tempo, dove finalmente potremo incontrarci di nuovo.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Infine, desidero dedicare ogni singola parola che ho scritto nel blog a mio papà che un giorno ha deciso di tentare bei cieli più tersi. A lui va il mio pensiero, il mio ricordo e il mio amore: per tutto quello che in vita purtroppo non ci siamo detti e che magari, anche inconsapevolmente, sono riuscito a dirgli qua dentro.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">I won’t let this spark die in me.</div>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com10tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-16107276201673585552023-11-20T00:00:00.007+01:002023-11-20T00:18:47.871+01:00Promontorio<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVk8A0-vmrgcnoRVEyNBmT2kgM5sMAeAmJthhIJqhDOEA7c7S-tFN2O00VdYZelXPtE5xj0ryPUgOmxj476lHxd7wgUReBpRMc-cDwTzrar634XovCS7jSpd1Socee0I39uUd_7MVjV9XPv6b8kAQKfXe9zw4Pz7fS7qbw8D5i6uRincM4d2Ntu0-GzaA/s662/il%20terapeuta.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="662" data-original-width="500" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVk8A0-vmrgcnoRVEyNBmT2kgM5sMAeAmJthhIJqhDOEA7c7S-tFN2O00VdYZelXPtE5xj0ryPUgOmxj476lHxd7wgUReBpRMc-cDwTzrar634XovCS7jSpd1Socee0I39uUd_7MVjV9XPv6b8kAQKfXe9zw4Pz7fS7qbw8D5i6uRincM4d2Ntu0-GzaA/s320/il%20terapeuta.jpg" width="242" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">La luce si affievolisce e
io penso alla merda, a tutta quella che, dal momento in cui veniamo
al mondo, espelliamo grazie al nostro sfintere. Dopo infiniti peripli
nelle tubature, montagne russe, capriole e giri della morte, dove
finisce? Dove sono finiti tutti gli escrementi che fin da quando ero
un bimbo mamma e papà ripiegavano nel pannolino e che poi,
crescendo, sono stati risucchiati dai gorghi dei cessi sui quali mi
sono seduto? Credo che, semplicemente, siano finiti in mare, o al
massimo in un fiume che poi, nel prolungamento del viaggio, tra
strette anse e cascatelle, ha portato le mie feci verso la libertà
acquea. Ora, tenendo conto che io ho sempre vissuto nella medesima
città e che in trentasei anni di vita avrò defecato almeno
tredicimila volte, penso al fatto che c’è molto, ma davvero molto
di me, nello specchio d’acqua che ogni mattina vedo affacciandomi
alla finestra. Certo, delle deiezioni di quando avevo dieci o venti
anni non sarà più rimasto granché, tutto si sarà sfibrato,
sfilacciato, dissolto nelle profondità marine oppure inghiottito dai
golosi cefali (e quindi immesso di nuovo in mare attraverso le loro
cacchine filamentose), tuttavia mi piace immaginare che ogni stronzo
o stronzetto che ha abbandonato il mio corpo, una volta riunitosi nei
fondali con i propri simili, sia stato capace di riagglomerarsi
perché distrutto dalla nostalgia dell’organicità, e che io abbia
cagato a Napoli, a Tokyo o a Barcellona, poco importa, la mia merda è
riuscita a viaggiare dentro gli oceani per compattarsi proprio lì
vicino dove vivo, questo è quello che penso mentre il buio si
allunga nella mia camera e fuori le donne anziane con le vene
varicose ciondolano di qua e di là tenendo in mano borse della spesa
di plastica tese fino al limite dai loro pesanti contenuti.</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">A fianco del mio
appartamento vive una ragazza madre che si chiama Aisha, è eritrea,
etiope o somala, le vorrei chiedere se da giovane nel suo Paese è
stata infibulata e se sì come ha fatto a rimanere incinta e poi a
partorire, ma finora non sono riuscito ancora a chiederle nulla
perché credo di amarla e l’idea di tentare un qualsiasi approccio
mi fa sentire un totale imbecille, l’unica occasione in cui è avvenuto
una specie di contatto è stato quando durante un’assemblea di
condominio Aisha ha preso parola davanti a tutti dicendo che da un
po’ di tempo è molto spaventata perché è capitato diverse volte
che qualcuno le abbia suonato al campanello nel cuore della notte e
che guardando dallo spioncino abbia visto una figura maschile
incappucciata ferma sul pianerottolo, e dicendo queste cose i nostri
sguardi si sono per un attimo incrociati e io le ho fatto un mezzo
sorriso ma non sono riuscito a vedere se sia stato corrisposto, nel
frattempo, di sera, prima di addormentarmi, appoggio sempre
l’orecchio alla parete cercando di captare qualcosa, una voce, la
tv, l’acqua della doccia che scorre. La sua bimba ha appiccicato
lungo le scale una serie di stickers a forma di unicorno che si
illuminano al buio, quando sono ubriaco marcio e ritorno a casa
barcollando quegli adesivi sono le mie stelle e la mia bussola, senza
di loro, senza di lei, sarei perso.</span></p>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">L’altro giorno sono
stato da una prostituta cinese, ho trovato il numero su un sito di
annunci, ho chiamato e mi ha risposto una voce delicata che mi ha
fornito l’indirizzo preciso dell’abitazione, così mi sono
presentato puntuale all’appuntamento con in bocca un gomma alla
menta extra forte, la donna che mi ha aperto la porta avrà avuto
almeno cinquant’anni, piccola, con la frangetta, tutta nervi e
finti sorrisi, era la mamasan che prendendomi per mano mi ha portato
nel cesso facendomi capire che avrei dovuto aspettare lì fino a che
in camera il cliente prima di me non avesse finito. Certo che sentivo
un vuoto, e guardando quelle piastrelle che mi ricordavano il bagno
di mia nonna il vuoto era diventato una voragine, una parte di me
voleva andare via, l’altra, appena la mamasan è riapparsa sulla
soglia, mi ha spinto a percorrere il corridoio che terminava nella
camera da letto, dentro c’era una ragazza con addosso della
lingerie dozzinale, la mamasan le ha detto qualcosa in cinese (forse
che desideravo fare i preliminari scoperti) e poi è uscita, la
ragazza allora in un misto tra italiano e inglese mi ha detto di
essere coreana, sentendo ciò le ho risposto che anni fa ero stato a
Seul, non credo abbia capito come io non ho capito perché doveva
vendersi per ciò che non era, e a questa cosa ci ho pensato ancora
dopo una volta uscito da lì con cinquanta euro in meno nel
portafoglio: che differenza avrebbe fatto se fosse stata indonesiana,
mongola o thailandese? Poi ho pensato che anche a Seul, nella zona di
Cheonho, una specie di risposta orientale alle vetrine olandesi, ero
stato con una prostituta che mi aveva detto di essere cinese. Questo
vuoto, questa faglia che ci portiamo nello stomaco, non se ne va via
con una banale eiaculazione, è una roba che ti agguanta l’anima e
giorno dopo giorno ti divora da dentro. Kafka aveva capito tutto, noi
non abbiamo capito niente.</span></p>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Io non ho molti ricordi
di infanzia, ma ne ho uno apparentemente anodino che però è come un
quadro appeso nella parete della mia memoria: è estate, io sono in
macchina con i miei genitori, dalla radio viene fuori </span><i style="text-align: left;">La mia banda
suona il rock</i><span style="text-align: left;"> di Fossati, non capisco niente di quelle parole ma
il ritmo che la fa vibrare mi permette di sentire una tremenda
nostalgia verso il futuro perché poi, vent’anni dopo, riascoltando
quella canzone proverò un senso di malinconia nei riguardi del
passato, ma prima vedo mio padre che scende giù dalla salita con una
borsa frigo rigida, dentro deve esserci qualche bibita, forse una
birra e l’insalata di riso più qualche panino con il prosciutto
nel caso avessimo ancora fame, sulla spalla sinistra ha imbracciato
l’ombrellone riposto nella sua federa, mamma mi tiene per mano, ha
dei sandali da cui spuntano le sue unghie smaltate di rosso, però lo
smalto è un po’ sbeccato e ora che ripenso a questo piccolo
dettaglio sono pervaso da una specie di tenerezza, mi sembra che
l’irregolarità dello smalto sia il simbolo della nostra posizione
sociale, e prima ancora, prima di partire per il mare, sono nel letto
della mia cameretta che di notte mi appare immensa, la sera ho visto
una trasmissione su Italia 1 che parlava di rapimenti alieni, mi
immagino cosa potrebbe accadere se dalla porta sbucasse una mano
fosforescente e io, immobilizzato dalla paura, venissi trascinato via
e portato a bordo del disco volante per essere usato come cavia nei
loro esperimenti, dopo, dopo il mare, ritorniamo indietro e io ho un
sonno che quasi mi sento morire, adesso la radio passa </span><i style="text-align: left;">Oro </i><span style="text-align: left;">di
Mango o </span><i style="text-align: left;">Con il nastro rosa</i><span style="text-align: left;">
di Battisti, non ce la faccio più, chiudo gli occhi e li riapro
davanti ad uno schermo dove una donna è attorniata da una decina di
uomini che si masturbano in cerchio.</span></p>
<p align="JUSTIFY" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Non
ho dubbi nel dire che la mia parola preferita in inglese è coping, e
si tratta di una parola che avevo completamente rimosso fino a che,
durante una convention nazionale dell’azienda per cui lavoro, è di
colpo tornata a galla e lo ha fatto per merito di una sedia a
rotelle, o meglio di una persona seduta su questa sedia, ed è andata
così: sul palco il presidente stava parlando di fatturato, di
crescita, di investimenti e chissà di che altro, tutto ciò fino a
quando verso la fine del suo intervento ha chiesto ad un nome e
cognome che non sono riuscito a captare di raggiungerlo sul palco, a
quel punto alla mie spalle si è fatto largo un cigolio che mi ha
spinto a girarmi per vedere avanzare sulla moquette una carrozzina
condotta da un giovane dal sorriso emozionato, e lì sopra uno
scheletro con un po’ di pelle attaccata, un uomo avvolto in un
montone oversize quando nella sala ci saranno stati almeno venti
gradi, giunto dinnanzi al presidente l’ex commercialista, perché
di questo si trattava: un professionista che all’epoca aveva dato
una grossa mano per l’apertura della società, ha ricevuto il
microfono e con una fatica che io e tutti gli altri siamo riusciti a
percepire come se fosse la nostra, ha diffuso la sua voce a
singhiozzo in tutta la platea, e ciò che è uscito dall’impianto
di filodiffusione è stata una specie di carezza perché l’uomo ha
detto con grande trasparenza che era molto contento di essere lì con
noi e che ci voleva davvero bene. Uscendo ho ripensato al fatto che
con ogni probabilità non avrei mai più rivisto quel signore e che
per ragioni che non hanno nulla a che fare con me o con i miei
colleghi, anche io, nello spazio di quel contatto sfuggente, ho
sentito di volergli bene.</span></p>
<p align="JUSTIFY" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">L’oscurità
è ormai una campana di vetro che mi imprigiona, ho deciso che
sarebbe stato questa sera perché ho rimandato per troppe sere,
praticamente tutte quelle della mia vita fino ad oggi. Così mi sono
guardato allo specchio e nel riflesso ho rivisto mio padre, poi ho
messo una felpa col cappuccio, ho preso le chiavi della macchina e ho
lasciato quelle di casa appese al chiodino vicino all’attaccapanni.
Uscendo ho schiacciato il campanello di Aisha, quella breve scossa
elettrica ha risuonato nelle scale come un raggio laser alieno, ho
giusto sentito i suoi passi incalzinati arrivare fino alla porta e
poi sono andato via. La città ancora intrisa di buio è così come
l’ho sempre vista: una frontiera sopravvissuta ad un attacco
nucleare, non c’è nient’altro intorno se non macerie e detriti
dove si nascondono relitti umani che si iniettano in corpo le
peggiori droghe o che succhiano i peggiori cazzi in cambio di qualche
spicciolo, vorrei essere cieco, vorrei poter volare via ma in
mancanza di ali, e quindi del cielo, dovrò accontentarmi
dell’abisso. Sono arrivato lì dove una macchia verde inizia a
digradare dolcemente verso il mare, mi sono spogliato di tutto e
l’erba ha cominciato a condurmi in basso fino a che la sua
consistenza filacciosa ha lasciato il posto alla rotondità dei
sassolini che da asciutti si sono fatti bagnati, così come sono
bagnate le mie caviglie, le mie tibie, adesso anche i miei testicoli
che si ritraggono per il freddo. Ho quindi proseguito il mio cammino
e anche quando l’acqua mi ha sfiorato le narici fino a farmi
scomparire, ho scoperto che potevo respirare sotto la
superficie e che la gravità proseguiva il suo lavorio fisico anche
sul fondo del mare, allora ho camminato lungo un sentiero illuminato
da pesci lanterna, le mie stelle, la mia bussola, fino a giungere su
uno scoglio piatto dove mi sono raccolto in posizione fetale, dopo un
periodo che potrebbe essere di un giorno come di cento anni, ho
sentito un abbraccio che mi ha avvolto da dietro, non ci ho messo
molto a capire che il mio me-merda era finalmente tornato al suo
corpo originale, e questo mio fantoccio escrementizio avvicinandosi
all’orecchio mi ha detto con fare materno che adesso non dovevo più
preoccuparmi di nulla, che non c’era più niente da cercare o da
scrivere, che adesso c’era solo da aspettare la Fine.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-908995442102054202023-11-18T00:09:00.003+01:002023-11-18T00:09:00.144+01:00Noche En El Jardín Salvaje<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhD0JyoYrnLJFVxtvrP3oyj-f2nGZGeVxROLEzeeBYVDUvvwYY9XXkWHL7QgyWIvPkiyESMertsHtgs3GF6VKLSIq6oyngueDbRgP158RF-4mVIlqQv4kaKRDVLeBeqNdjwCP2lI8WjrD7SILMbQZWj3auXV8XOv1lJ-RXRPlhrChF0u_EajQSXfb7Tu-Q/s846/noche.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="846" data-original-width="595" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhD0JyoYrnLJFVxtvrP3oyj-f2nGZGeVxROLEzeeBYVDUvvwYY9XXkWHL7QgyWIvPkiyESMertsHtgs3GF6VKLSIq6oyngueDbRgP158RF-4mVIlqQv4kaKRDVLeBeqNdjwCP2lI8WjrD7SILMbQZWj3auXV8XOv1lJ-RXRPlhrChF0u_EajQSXfb7Tu-Q/w228-h320/noche.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Un cortometraggio in cui
il regista costringe il proprio fratello ad essere un cartone animato
all’interno di un mondo surreale e notturno.</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Le poche (e uniche) righe
che accompagnano </span><i style="text-align: left;">Noche En El Jardín Salvaje</i><span style="text-align: left;">
(2015) dicono comunque tutto quel che c’è da dire, che è
sostanzialmente niente perché nei sei minuti di girato non succede
alcunché di meritevole, se non, ma questa è solo una deformazione
professionale che mi spinge a visionare più titoli possibili di un
dato regista senza che vi sia una concreta motivazione di fondo, la
constatazione che Miguel Llansó, aiutato dal fratello Guillermo che
ha sempre orbitato nelle sue produzioni, è un tipo eclettico, oltre
che abbastanza fuori di senno, e che quando non è in giro per
l’Etiopia a filmare situazioni e personaggi assurdi (ricordo il
coevo </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2020/11/crumbs.html">Crumbs</a></i><span style="text-align: left;">), il suo
tasso di bizzarria non viene meno, anzi, se ripensiamo al precedente
</span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2021/05/perro-liquen.html">Perro Líquen</a> </i><span style="text-align: left;">(2012) e
lo rapportiamo a </span><i style="text-align: left;">Noche...</i><span style="text-align: left;">
ecco che abbiamo una “bella” coppia di lavori imperscrutabili.
Qui l’accorgimento che visivamente spicca è l’utilizzo del
timelapse (o è stop-motion? Mica so riconoscere bene la
differenza...) praticamente per ogni fotogramma, il che incrementa
l’atmosfera stramba del corto già assestata su un livello alto con
il protagonista dotato di parruccona bianca, tunica e occhiali da
carnevale. Il soggetto in questione dialoga con una voce off a
proposito di un pregevole suono ascoltato un anno prima e che
entrambi vorrebbero tanto risentire, nell’attesa il cielo notturno
è solcato da stelle cadenti e le fronde del bosco ondeggiano per il
vento, c’è un senso </span><i style="text-align: left;">notturno</i><span style="text-align: left;">,
un odore nemorale, forse, ma proprio forse, anche una sottile
inquietudine bilanciata da dosi di ironia (“il prossimo anno sarò
in vacanza in Tunisia”), ma nello specifico cosa sia il suddetto
giardino selvaggio, che cosa dica o faccia il tipo imparruccato o più
in generale quale siano i perché e i percome di questo lavoro breve
sono quesiti ai quali non sono minimamente in grado di rispondere.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-81180566535387380602023-11-17T00:00:00.002+01:002023-11-17T00:00:00.142+01:00Dakar<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiutkaRIpX794anojvNnPt3aRxxhAI-7tyuT-XiOdXwV9N5dTBKQZ5PK3gpG2ZuvBfqOo2Xzk38P3k80WPngsu7RURNCvA4ovQVNuBgXhYgaO7DWzNurjK9K2mm1wvEiCYHvwT3F1ZTE4aZDkzQ3da61dk0CMETvSMv1Mui3vcXu8s2bR1JuodE4ZEafBY/s1024/dakar.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1024" data-original-width="724" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiutkaRIpX794anojvNnPt3aRxxhAI-7tyuT-XiOdXwV9N5dTBKQZ5PK3gpG2ZuvBfqOo2Xzk38P3k80WPngsu7RURNCvA4ovQVNuBgXhYgaO7DWzNurjK9K2mm1wvEiCYHvwT3F1ZTE4aZDkzQ3da61dk0CMETvSMv1Mui3vcXu8s2bR1JuodE4ZEafBY/w231-h320/dakar.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Atene è avvolta da una
notte ferma, le luci del Pireo, il mare e un anziano uomo che si
aggira per la città ascoltando una vecchia registrazione.</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><i style="text-align: left;">Dakar</i><span style="text-align: left;"> (2020) è un
cortometraggio che non ha nessuna qualità capace di farmi sobbalzare
sulla sedia, è un lavoro che ha le sue caratteristiche ben definite
alle quali riconosco una rispettabile professionalità, ma che resta
congelato nella sterminata galassia delle produzioncine festivaliere,
nello specifico fu il Thessaloniki International Film Festival.
Stelios Moraitidis, il suo regista classe ’90 il cui film
precedente, </span><i style="text-align: left;">Deconstructing Interruption </i><span style="text-align: left;">(2016),
dovrebbe essere una sorta di backstage dell’</span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2020/02/interruption.html">Interruption</a></i><span style="text-align: left;">
(2015) di Yorgos Zois, si gioca la carta epistolare utilizzando il
cinema come contenitore di emozioni impresse su una missiva che
materialmente non esiste più se non nel nastro di una vecchia
cassetta, il punto, però, sta per chi scrive proprio nel concetto di
“contenitore”, l’impressione è che la settima arte qui sia
esclusivamente usata come un recipiente: giro una storia su un amore
passato finanche perduto e lo riverso in uno spazio filmico di dieci
minuti scarsi, bon. Mi è mancata una valida tessitura tra la sezione
chiamiamola narrata e la scelta delle immagini urbane, di questo
vagare per Atene da parte del protagonista. Non è una roba
facilissima da spiegare quella che voglio esprimere, di opere che
hanno un’impostazione similare a </span><i style="text-align: left;">Dakar</i><span style="text-align: left;">
ne sono passate parecchie da queste parti, e alcune, di cui non farò
i nomi per non ripetermi ma l’origine, l’archè, rimane e rimarrà
per sempre Chris Marker, avevano una concertazione, un senso di
insieme, di meraviglia, di energia che Moraitidis non è riuscito a
imprimere. Io ci ho visto solo la superficie, ovvero un vecchio che
vive il presente nel rimpianto del passato mentre intorno a lui il
mondo continua a scorrere incurante, ed è, appunto, una superficie
che pare anche un </span><i style="text-align: left;">tutto</i><span style="text-align: left;">,
ma non in un’ottica totalizzante, un tutto di ordinaria levatura.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-65788217550110217232023-11-16T00:00:00.007+01:002023-11-19T11:49:01.601+01:00Notturno<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhrq2Fj_SdXdWPXwjuXXuHtHBlheXIhmBspeS8mo3dUkVpc5Krno4MbnS-gjwskXw7ZXyzIcGVHjco4Pv3dQGUpJep6wZOO5Xha1xBgIrth_CjrnoVjEZF_Osce_lDnjK8s2mq0lt2X0dRiKJbMkRSbQ2WUrnJMB4624l5B5jwJ69Sk5h9_WWtcG39Gtd4/s570/notturno%202020.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="570" data-original-width="400" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhrq2Fj_SdXdWPXwjuXXuHtHBlheXIhmBspeS8mo3dUkVpc5Krno4MbnS-gjwskXw7ZXyzIcGVHjco4Pv3dQGUpJep6wZOO5Xha1xBgIrth_CjrnoVjEZF_Osce_lDnjK8s2mq0lt2X0dRiKJbMkRSbQ2WUrnJMB4624l5B5jwJ69Sk5h9_WWtcG39Gtd4/w229-h320/notturno%202020.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Be’, che non mi si
venga a dire che </span><i style="text-align: left;">Notturno</i><span style="text-align: left;"> (2020) non è la proiezione del suo
predecessore </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2018/07/fuocoammare.html">Fuocoammare</a></i><span style="text-align: left;"> (2016), una simmetria, un riflesso,
ok: ci sono delle divergenze ma preferisco partire da ciò che
converge e in tal senso c’è un netto allineamento intellettuale
compiuto da Gianfranco Rosi: il film ambientato a Lampedusa metteva
a... fuoco (pardon) il problema-migranti, che poi lo facesse bene o
male è un discorso che forse non sono riuscito a chiarire nemmeno a
me stesso, però è innegabile che il topic della migrazione fosse il
suo nodo centrale, l’opera girata tra Siria, Iraq e altri Paesi
limitrofi non fa altro che andare alla radice del “problema”
appena citato, e lo fa senza scivolare su un confronto lampante,
senza spiattellare la faccenda in faccia allo spettatore, ed è
allora qui che non si può fare a meno di chiedersi quante donne o
uomini siriani, kurdi o libanesi si trovavano su quel barcone in
</span><i style="text-align: left;">Fuocoammare </i><span style="text-align: left;">nella “famosa”
sequenza della stiva, da questa angolazione </span><i style="text-align: left;">Notturno</i><span style="text-align: left;">
è la premessa, l’antefatto umano che, peraltro, non smette di
essere tale visti i continui flussi verso l’Italia. Quanto mi preme
dire in sostanza è che nel collegamento tra i due documentari quello
più recente si dimostra pudico nel mostrare i drammi di quelle zone,
i conflitti ci sono ma solo oltre un orizzonte da cui provengono
funerei rimbombi, la morte c’è ed è ovunque ma ’sta volta resta
fortunatamente fuori campo, o al massimo sgorga dalle lacrime delle
madri che visitano le carceri dove hanno torturato e ucciso i loro
figli, oppure nei disegni dei bambini sopravvissuti alle terribili
angherie dell’ISIS. In generale ritengo apprezzabile questo
sottrarsi di Rosi alla frontalità della tragedia, questo suo
interessarsi ai pezzetti di un mosaico marginale, d’altro canto le
indicazioni geografiche ci parlano solo di zone di contiguità, alla fine
paga abbastanza, o perlomeno paga molto di più rispetto a quando il
mirino della cinepresa era puntato esclusivamente su un unico
obiettivo, vedi il sopravvalutato </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2017/04/sacro-gra.html">Sacro GRA</a></i><span style="text-align: left;">
(2013).</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Trattandosi
di Rosi sappiamo che il livello estetico non può che assestarsi su
un piano elevato, per alcuni critici forse troppo elevato al punto da
creare uno scollamento tra la forma e il contenuto. In effetti, se si
esclude il lavoro giovanile </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2017/01/boatman.html">Boatman</a> </i><span style="text-align: left;">(1996),
il cinema di questo autore ha subito un progressivo processo di
estetizzazione tanto da trovarmi d’accordo con le parole di
Leonardo Gregorio nella sua recensione su Gli Spietati (<a href="https://www.spietati.it/notturno/">link</a>) nella
quale viene proposto un parallelo solo in apparenza azzardato con
Paolo Sorrentino. Quando la patinatura di una pellicola prende il
sopravvento su tutto il resto si ha come la sensazione che le
tematiche affrontate si inaridiscano di fronte ad una messa in scena
tirata ostinatamente a lucido, non so se sia un’impressione errata
o un pensiero troppo intransigente, fatto è che in </span><i style="text-align: left;">Notturno
</i><span style="text-align: left;">(e, dato che è stata una
visione recentissima, anche, ad esempio, in </span><i style="text-align: left;">È stata la
mano di Dio</i><span style="text-align: left;">, 2021) le immagini a
tratti prevaricano sui possibili significati, non è che li inglobano
in sé, li schiacciano proprio, il che non sarebbe affatto un difetto
per certi esemplari cinematografici (e infatti per Sorrentino la
riflessione è meno calzante), ma qui, in una prospettiva che si
prefigge di cogliere la realtà, e nello specifico una realtà dura,
difficile, complessa, una ricerca formale di tal fatta genera una
sorta di idiosincrasia, come se l’urgenza di quei luoghi venisse
coperta da una bellezza che forse non era così necessaria.</span></p>
<p align="JUSTIFY" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Non
so, Rosi continua a mettermi in difficoltà, ma non è un mettermi
alla prova, non è un cimentarsi con qualcosa di arduo da vedere, da
capire, è più un ragionare senza troppa convinzione su un risultato
che altrove produce risultati di ben altro spessore attraverso metodi
meno appariscenti (penso sempre a Sylvain George), ciò non toglie
che comunque qui vi siano scampoli di lucore che sono felice di aver
visto, a prescindere dalle modalità espositive non capita tutti i
giorni di entrare dentro ad un manicomio a Baghdad oppure ascoltare
i messaggi vocali di una donna rapita dall’ISIS inviati alla mamma.
Quindi non c’è un quindi e neanche una conclusione, Rosi è un
signor professionista e questa è la sua idea di settima arte, nello
sterminato panorama contemporaneo mantiene una posizione
rispettabile, l’importante è sapere che esiste anche dell’altro.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-65353295757240898302023-11-15T00:00:00.008+01:002023-11-19T11:45:07.981+01:00The Second Best<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIigSpFNTSRoG0ItIHeD63f3zF61fK2BXs3JQ30c6eiQ-mR4VSBJ7A6Bu68jpBu84K66bB8UseZGMORuE8d-tu7bYBUbx5eVs-TFcB4wF22uZ6P7gGhDYTiEDpWujaUbXKEWDK4e9zBzkFn2A_4DTGNHuGqN2_1HN8_UIiXwVz9UfHo6ufz-DNCOpafyA/s1100/the%20second%20best.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="619" data-original-width="1100" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIigSpFNTSRoG0ItIHeD63f3zF61fK2BXs3JQ30c6eiQ-mR4VSBJ7A6Bu68jpBu84K66bB8UseZGMORuE8d-tu7bYBUbx5eVs-TFcB4wF22uZ6P7gGhDYTiEDpWujaUbXKEWDK4e9zBzkFn2A_4DTGNHuGqN2_1HN8_UIiXwVz9UfHo6ufz-DNCOpafyA/w212-h266/the%20second%20best.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><i style="text-align: left;">The Second Best</i><span style="text-align: left;"> (2013) è un
altro lavoro pre-</span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2020/11/crumbs.html">Crumbs</a></i><span style="text-align: left;"> (2015) del madrileno Miguel Llansó
che bazzica i territori etiopi, ma, almeno per ciò che il
sottoscritto ha potuto visionare, è anche il suo titolo più
ordinato, più lineare, qui non ci sono slanci nel distopico o nel
para-grottesco, tutt’altro, l’attenzione di stampo realista è
rivolta a Wami Biratu, un maratoneta nato in Etiopia oscurato dalla
leggenda di Abebe Bikila, il corridore che nell’epica maratona di
Roma 1960 tagliò il traguardo... scalzo. Bikila è mancato nel ’73
a causa di un’emorragia celebrale, mentre Biratu nel momento in cui
sto scrivendo queste righe (dicembre 2021) dovrebbe essere ancora
vivo e vegeto, del resto nelle immagini di Llansó che lo riprendono
già ultranovantenne lo vediamo in formissima impegnato in quella che
viene definita come la sua ultima gara circondato dall’affetto
degli altri partecipanti. È indubbiamente una bella storia di sport
che mi ha ricordato un altro cortometraggio molto simile, sia per
fattura che per tematiche, dal nome </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2020/09/42195-km.html">42,195 Km</a></i><span style="text-align: left;"> (2010), in
entrambi è agevole constatare che la narrazione sportiva esposta
scavalla in qualcosa di più ampio che riguarda la Storia umana e
sociale di un Paese e delle persone che lo abitano. Quindi, ok che il
racconto è piacevole da ascoltare e da conoscere, ma per quanto
concerne ciò che più ci interessa, ovvero il cinema, come siamo
messi?</span></div>
<p style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">Eh, insomma, non proprio alla grande mi
pare. Va bene che il regista spagnolo darà il meglio di sé nei due
lungometraggi successivi, però anche nei suoi esemplari giovanili,
seppur caotici e raffazzonati, permaneva sempre una qualche scintilla
di estro (vedi <i><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2021/04/chigger-ale.html">Chigger Ale</a></i>, 2013), in <i>The Second Best </i>il
discorso è decisamente semplificato fino, me lo si conceda, ad
essere appiattito. Non vi è la minima ricerca concettuale né
l’interesse a vivacizzare la scena, l’intento è chiaramente
quello di fornire il ritratto biografico di un atleta che al di fuori
dei confini nazionali non ha mai ricevuto i riconoscimenti che
meritava (a precisa domanda Bikila rispose che lui era il “migliore
secondo” in Etiopia, lasciando piuttosto sgomenti i cronisti che
Biratu non sapevano chi accidenti fosse), se ad uno spettatore tanto
basta allora è libero di accomodarsi, per gli affamati visioni vere allora è meglio direzionarsi altrove.</p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-85998260682672639902023-11-14T00:00:00.001+01:002023-11-14T00:00:00.137+01:00Bait<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEie-jSnaPkr9a3RPfSSuvJshuctELUcNQzW7aGPqkJjNmH391WbwkaJPt7OASKFjn9bz1QF0zoxb0zx2Dzdpmhyphenhyphen3BaeeI2gcbk__G81ZA330We2rpdrAep8O7FFmuY9wEmztqBb15yLX_wcLndbu1sUYW_LvKrPluoF81Tx2-ofuGM_CGXpqIwsKumjORM/s2048/bait.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1381" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEie-jSnaPkr9a3RPfSSuvJshuctELUcNQzW7aGPqkJjNmH391WbwkaJPt7OASKFjn9bz1QF0zoxb0zx2Dzdpmhyphenhyphen3BaeeI2gcbk__G81ZA330We2rpdrAep8O7FFmuY9wEmztqBb15yLX_wcLndbu1sUYW_LvKrPluoF81Tx2-ofuGM_CGXpqIwsKumjORM/w218-h320/bait.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Quest’operazione di
chirurgia estetica inversa mirata a invecchiare il paziente-film e
non a ringiovanirlo, è una scelta che ha le sue radici negli
interessi personali del regista Mark Jenkin, uno a cui piace molto di
più la resa in video analogica rispetto a quella digitale. Io
concordo però, seppur </span><i style="text-align: left;">Bait</i><span style="text-align: left;"> (2019) possegga un aspetto
anomalo, non si può certo dire che risulti seminale, sono infatti
innumerevoli gli esemplari filmici che in passato hanno adottato
un’impostazione simile, ciononostante l’opera ha un che di
“curioso” se vista nella sua completezza, curiosità che nasce a
mio avviso dal seguente contrasto: il racconto di una contemporaneità
attraverso modalità apparentemente antiche. Il vestito che Jenkin ha
cucito per </span><i style="text-align: left;">Bait</i><span style="text-align: left;"> è difatti tutto sdrucito, slabbrato,
imperfetto, pieno di finte abrasioni che sembrano fare della
pellicola un ritrovamento da soffitta, tuttavia non ci vuole granché
ad apprendere di come la vicenda ruoti intorno al polo magnetico
della quotidianità, il denaro, e alle infinite diramazioni che da
esso si irradiano, in particolare mi è parso che al filmmaker stia
molto a cuore il discorso della tradizione incarnato dal pescatore
Martin tallonato dai sintomi di una modernità non sana come la
ricerca spasmodica di creare turismo, e quindi guadagno, in una zona
dove il turismo non c’era mai stato (siamo in una piccola comunità
costiera della Cornovaglia). Fissato a mente il quadro generale la
domanda da porsi è: quanto è funzionale l’apparato formale
imbastito da Jenkin per esporci la sua storia? Nel senso, ciò che ci
ha proposto sarebbe potuto esistere anche con una forma più
classica? Sono indeciso. La visione in sé è stata altalenante, se
in alcuni frangenti ho percepito una valida concertazione, in altri
no e lo spettro di uno sterile pavoneggiarsi si è fatto avanti.</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Paradossalmente gli
aspetti che più mi hanno impressionato sono anche quelli che ho
trovato potenzialmente più criticabili, dal punto di vista della
sintassi il flusso che riceviamo colpisce con discreta efficacia, è
tangibile un’attenzione quasi maniacale per non dire ossessiva ai
dettagli (sulle banconote e sui pesci, due istanze messe in dialogo
visivo seguendo la traccia menzionata prima passato vs.
presente/futuro) oltre che una serie di accorgimenti non proprio
convenzionali, prendiamo l’insistenza sui primi piani che fanno del
film una specie di western acquatico d’oltremanica o l’impianto
sonoro che è stato inserito in toto in fase di post-produzione.
Insomma, tira un’aria inusuale eppure, almeno per il sentire del
sottoscritto, non si riesce a sfondare la porta della
straordinarietà, è come se una volta tirata via questa corteccia
artificiale </span><i style="text-align: left;">Bait</i><span style="text-align: left;"> riveli una
nudità meno interessante della sua stessa superficie, ché se qui
c’era da riflettere sul capitalismo e derivati concettualmente non
riesco a catalogare lo sforzo di Jenkin come memorabile, apprezzabile
all’incirca sì, ma memorabile no.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-24224101748190695382023-11-13T00:00:00.007+01:002023-11-13T00:07:18.803+01:00The Children of Leningradsky<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj_LL1Ix0TiT0Ot7SJbQXruiSpRdqt6Xl38LHD1_6lgIbPxBcUk7wXT-08f9zKv0QMSfu3igHGWluOHlc00h_16Joehj_7T07BmNC1xoFwZ18M-HuZMHEqG4FQE4HnJJbWIh7-SsBL3JEOxwAE3eH59ZtXIlz96i0ZwrnF-rI9lDgDMQezU1h_HZDWu5ZQ/s671/The%20Children%20of%20Leningradsky.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="671" data-original-width="453" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj_LL1Ix0TiT0Ot7SJbQXruiSpRdqt6Xl38LHD1_6lgIbPxBcUk7wXT-08f9zKv0QMSfu3igHGWluOHlc00h_16Joehj_7T07BmNC1xoFwZ18M-HuZMHEqG4FQE4HnJJbWIh7-SsBL3JEOxwAE3eH59ZtXIlz96i0ZwrnF-rI9lDgDMQezU1h_HZDWu5ZQ/w218-h320/The%20Children%20of%20Leningradsky.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">Onestamente non ricordo
come ero arrivato a <i>The Children of Leningradsky</i>
(2005), forse dopo la lettura di <i>Besprizornye. Bambini randagi
nella Russia sovietica</i>
<i>(1917-1935) </i>(Adelphi,
2019) avevo fatto qualche ricerca in Rete ed ecco che era spuntato il
documentario di Andrzej Celinski e Hanna Polak, o forse, come spesso
accade, era stato lui a trovare me comparendo in una lista presa
dagli oscuri anfratti di Internet. Comunque sia andata devo comunicare che purtroppo
non sono molto felice dei trentatré minuti passati in compagnia di
questo film, alla base del mio scarso gradimento c’è una
confezione che sembra appartenere ad un’altra epoca e, beninteso,
avrei detto la stessa cosa anche se lo avessi visto nel suo anno di
uscita. Inutile girarci in giro: è un prodotto televisivo, anche se
mostra una realtà durissima fatta di degrado, abbandono, droga e
prostituzione, il taglio generale fornito dai due registi polacchi
mira ad una accessibilità che possa arrivare ai più avvalendosi
della frontalità delle immagini, al loro impatto sullo spettatore.
Tralasciando la qualità video mal invecchiata a causa di quel
digitale degli anni zero che oggi ci risulta quasi giurassico, la
costruzione del corto è esclusivamente mirata all’esibizione del
dramma in cui affoga l’esistenza di questi bambini randagi, le
interviste alternate a scampoli della loro complicata vita,
diventano, me lo si passi, uno show privo di reale, e quindi sì, ciò
che più al sottoscritto è mancato è stata una verità nella
visione.</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<p align="JUSTIFY" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: center;">Allora,
non è che mi aspettassi di ritrovare un monolite post-sovietico </span><i style="text-align: center;">à
la</i><span style="text-align: center;"> Artour Aristakisian né
potevo attendermi chissà quali sconvolgenti innovazioni visto che
parliamo di un’opera che finì nell’orbita degli Oscar, però io
so che il cinema ha in sé una forza radicale e quando mette bene a
fuoco un argomento può essere letteralmente devastante, in </span><i style="text-align: center;">The
Children...</i><span style="text-align: center;"> si è lontani da un
tale trasporto e la cosa fa incazzare perché qui la tematica è
bella densa (ah, non l’ho ancora proferito: si parla di ragazzini
soli al mondo che vivono nei pressi di una stazione metro moscovita)
e c’era la possibilità di lasciare un segno molto più profondo. E
visto che ho aperto il commento citando un libro, chiudo riportandone
un altro: </span><i style="text-align: center;">I poveri </i><span style="text-align: center;">(minimum
fax, 2020) di William T. Vollmann che non tratta direttamente di
adolescenti allo sbando ma che nel suo reportage romanzato sugli
ultimi del pianeta sfiora le sorti di una famiglia russa in balia del
proprio destino. È un gran bel libro di un gigante della letteratura
contemporanea, accaparratevelo.</span></p></div>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-81229822639321481412023-11-11T00:00:00.004+01:002023-11-12T19:41:46.207+01:00Where Is My Dog?<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh0Ojnf8DY2k4M2Y9p6v3XKWXuhqPRQsA4Is0wdTxXp2rqfBOB7TP9jppKz_LhGsBIHC60D6GXrZTdK_qNx5YPDiw5CWYe_GLLSqTxRXk73wNJ2VIaoohIKXhGnScCFI7F-60K9NN9KHEtn190-3vJfyE49SqiVnKd3H01yUCR7wtV9DoTaopykD1CCmPQ/s789/where%20is%20my%20dog.png" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="789" data-original-width="557" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh0Ojnf8DY2k4M2Y9p6v3XKWXuhqPRQsA4Is0wdTxXp2rqfBOB7TP9jppKz_LhGsBIHC60D6GXrZTdK_qNx5YPDiw5CWYe_GLLSqTxRXk73wNJ2VIaoohIKXhGnScCFI7F-60K9NN9KHEtn190-3vJfyE49SqiVnKd3H01yUCR7wtV9DoTaopykD1CCmPQ/w229-h320/where%20is%20my%20dog.png" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Un acerbo Miguel Llansó
comincia a prendere confidenza con il Paese che poi diventerà il set
principale di tutte le sue produzioni, l’Etiopia, e lo fa, per
forza di cose, in maniera ancora un po’ (tanto) raffazzonata e
traballante ma non completamente priva di idee. La questione che fa
da miccia è la scomparsa di un cane e di come il regista stesso
insieme ad un amico (Yohannes Feleke che figura come co-director) si
adoperino nell’aiutare il padrone, un ex professore ora in
pensione, nella ricerca dell’animale per le strade polverose di
Addis Abeba. Un impianto visivo piuttosto rudimentale ci porta a
stretto contatto con gruppi di ragazzini a cui viene promessa una
ricompensa nel caso ritrovassero Leman, al che sorge spontanea una
domanda: vuoi dire che Llansó prima delle bizzarrie distopiche di
</span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2021/04/chigger-ale.html">Chigger Ale</a></i><span style="text-align: left;"> (2013) e </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2020/11/crumbs.html">Crumbs</a></i><span style="text-align: left;"> (2015) si era interessato
con una certa serietà alla realtà etiope circostante? Be’, alcune
immagini ed alcune situazioni sembrano andare in tale direzione, la
sensazione di camminare sul crinale della finzione-non-finzione è
comunque affiancata dall’eloquenza di ciò che si vede, ovvero
manipoli di ragazzetti che masticano una povertà per larga parte
sconosciuta ai loro coetanei in occidente (carine le interviste sul
tema “che ci faresti con quei soldi”) oppure l’estesa presenza
di cani randagi, sia vivi che morti, presenti nella città. Insomma,
</span><i style="text-align: left;">Where Is My Dog? </i><span style="text-align: left;">(2010) ha un cuore documentaristico, non è
proprio frontale e penso che non fosse nemmeno l’obiettivo principe
dei due registi, però traspare e lo si accoglie così come è.</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Però questa parvenza di
realismo, o, se vogliamo usare paroloni inappropriati, di cinema (per
il?) sociale, si dissolve dopo metà proiezione mettendo a nudo le
vere intenzioni di Llansó che sono più concettuali di quanto ci si
poteva aspettare, seppur limitate dall’esiguità dei mezzi a
disposizione. Non ci troviamo di fronte a chissà quale illuminante
procedura che passerà alla storia della settima arte, si tratta di
un giochino (ma non considerate questo termine in modo così
dispregiativa) tanto datato quanto piacevole dove si smantella
l’apparato finzionale generando sorpresa nello spettatore: allora
era tutto </span><i style="text-align: left;">finto</i><span style="text-align: left;">? Per sorprendere il sottoscritto, e credo che
valga lo stesso per voi prodi lettori, ce ne vuole, diciamo che
ragionando sulla natura di </span><i style="text-align: left;">Where Is My Dog?</i><span style="text-align: left;">,</span><i style="text-align: left;">
</i><span style="text-align: left;">e in particolare rispondendo al
quesito qui sopra, si giunge a riflessioni che sfiorano il senso del
vedere un film, dell’artificio che lo compone e dagli sprazzi di
reale che comunque non possono fare a meno di affiorare dal suddetto
artificio, e quest’ultima cosa, del tasso di verità contenuto
nella menzogna, è piuttosto interessante e ritengo sia capace da
sola a portare il corto alle soglie della sufficienza. Presente anche
l’immancabile Daniel Tadesse che appare in qualche frame fino a
salutare idealmente il pubblico con l’inchino finale.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-47558296011894744572023-11-10T00:00:00.004+01:002023-11-10T00:29:33.343+01:00Empty Metal<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhL7teIGF59prubAOQE37RPipHgGefWbkby0dgEhpCnyDHzBI2aGHuq4ruth8qhj4fARusDjRngXgOVgyrNCgF20QsDVY-EKOPAEGNQqx6saIYDFyhAjJwo-W_nRKVVLLIuMp9v2eiBpawzFrvg1XEvk4rjNpbMAmeHHAlI3-vvwjroCLSrb6KhR-OM7gY/s841/empty%20metal%202018.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="841" data-original-width="555" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhL7teIGF59prubAOQE37RPipHgGefWbkby0dgEhpCnyDHzBI2aGHuq4ruth8qhj4fARusDjRngXgOVgyrNCgF20QsDVY-EKOPAEGNQqx6saIYDFyhAjJwo-W_nRKVVLLIuMp9v2eiBpawzFrvg1XEvk4rjNpbMAmeHHAlI3-vvwjroCLSrb6KhR-OM7gY/w213-h320/empty%20metal%202018.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Dopo </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2023/08/another-day-without-future-but-what.html">Another Day Without a Future, But What the Hell Another Day...</a></i><span style="text-align: left;">
(2012) l’esordio nel lungometraggio di Adam Khalil, qui coadiuvato
da Bayley Sweitzer, un professionista del settore che ha lavorato
anche in <i>Diamanti grezzi</i> (2019) dei fratelli Safdie, me lo aspettavo
proprio così: fottutamente respingente, oltre che strano, bislacco e
una quantità notevole di altri aggettivi capaci di descriverne la
sua inconsueta natura. Detto ciò, al pari del cortometraggio
precedente, ed anzi in maniera potenziata, anche </span><i style="text-align: left;">Empty
Metal</i><span style="text-align: left;"> (2018) possiede una gran
bella energia che lo fa vibrare davanti a noi. La domanda allora è:
questa energia, questa vibrazione, dove sono direzionate? Cioè che
cosa smuovono, che cosa toccano? Non è semplice dare una risposta,
pertanto preferisco ora rifugiarmi in un banale report tramico: ci
sono gli Alien, una band che fa punk-elettronico, e c’è la loro
insoddisfazione musicale ed esistenziale, c’è un trio, che poi
forse diventa un quartetto, dotato di poteri sovrannaturali, che
assolda il gruppo per compiere degli omicidi, c’è poi una specie
di milizia clandestina che si esercita con le armi nei boschi e ci
sono infine svariati rimandi ad un’idea di Fine, non si sa bene se
del mondo tout court o se del
mondo-dei-protagonisti-come-è-stato-finora (difatti la scena
d’apertura sembra l’inizio di un film post-atomico). Insomma, di
carne al fuoco ne abbiamo tanta e non mi vergogno a dire che
probabilmente ce ne sia ancora di più di quanta il sottoscritto ne
ha individuata, i limiti culturali che ho verso la cultura americana
mi impediscono di essere più preciso, ma comunque, al di là delle
tematiche affrontate, non si può non registrare una crescita di
Khalil, quello che rimane è il caotico mix di supporti sulla scorta
del sodale </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">Fernández
Molero, però è palpabile una maggiore orchestrazione, le immagini
spesso sono “brutte” perché si rimbalza da riprese video fatte
col cellulare a ricostruzioni in un 3D molto âgée ma non si direbbe
mai, o quasi mai, che si è al cospetto di una produzione scadente.</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Il fatto che </span><i style="text-align: left;">Empty
Metal </i><span style="text-align: left;">sia nato in piena epoca
trumpiana non credo sia un dettaglio, anzi si tratta di una vera e
propria sommossa verso un certo tipo di politica, all’aria che
tirava (e tira?) da quelle parti, la morte di George Floyd è
successiva ma ciò fa del titolo sotto esame un preoccupante sguardo
premonitore verso la discrepanza che sussiste tra lo Stato con la sua
impunità ed il normale cittadino, si noti che le scene dove viene
illustrato questo sbilanciamento di potere sono tutte riprodotte in
computer grafica, come un fallace allontanamento da ciò che è
reale. Tuttavia dubito fortemente che qualche pro-Trump abbia potuto
cogliere la vena caustica che serpeggia nell’opera perché è
mimetizzata in una cornice che sfiora il nonsense. È interessante,
nonché difficile da decifrare, la duplice visione che Khalil dà
della tenuta cospirativa, una fazione è più “comprensibile”,
abbiamo infatti tre soggetti appartenenti a delle minoranze etniche
(di cui il regista stesso fa parte essendo originario di una tribù
nativa che si chiama Ojibway) che assumono un ruolo decisamente
astratto, ci è suggerito che siano come dei sobillatori a spasso nel
tempo, ma l’altra frangia insurrezionalista è più complicata da
inquadrare perché sembrano, o forse è meglio dire sono, dei Proud
Boys che accarezzano il loro AK-47 prima di andare a nanna,
facinorosi che, riportando le parole di uno di essi, hanno un solo
nemico: il Governo. Ecco, seguendo la doppia pista sovversiva è
fornito uno schizzo dissennato, ma nemmeno troppo, di una realtà che
non è, ovviamente, troppo diversa da quella che viviamo. L’Autorità
prevarica, controlla, colpisce, e la storia continua a ripetere sé
stessa.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-78246567602009677102023-11-09T00:00:00.004+01:002023-11-09T23:16:16.901+01:00Diamond Island <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8mYliQ1YbzH3UFRHW2zj_VJeotTMlS7AkGsoZTE2mxc9xEulCDBi1lw0H5nixAKHVB48YpZaEbIXhBFTn3adX3lIXZovhBCcJPCSHFADWMPYROroTuunJac9ujah4sLdrFvtltpshsicZybMggK6NDxnIuK-ipGpH7Bke1qwZw1vCdLWn9PbzjLBzWwU/s1321/diamond%20island.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1321" data-original-width="1000" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8mYliQ1YbzH3UFRHW2zj_VJeotTMlS7AkGsoZTE2mxc9xEulCDBi1lw0H5nixAKHVB48YpZaEbIXhBFTn3adX3lIXZovhBCcJPCSHFADWMPYROroTuunJac9ujah4sLdrFvtltpshsicZybMggK6NDxnIuK-ipGpH7Bke1qwZw1vCdLWn9PbzjLBzWwU/w239-h320/diamond%20island.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Così così questo
lungometraggio cambogiano con importanti quote francesi alla
produzione, e prima di inoltrarmi nel solito commento striminzito mi
e vi pongo un quesito che al di là di ogni possibile difetto sta
alla radice del mio scarso apprezzamento: può un film che è insindacabilmente orientale per via del set, dei temi trattati e
degli attori coinvolti non piacere perché non abbastanza </span><i style="text-align: left;">orientale</i><span style="text-align: left;">?
Il regista Davy Chou faticherebbe non poco a comprendere un tale
interrogativo, mi metto nei suoi panni di giovane filmmaker e scorgo
un debuttante che ha voluto raccontare uno spaccato adolescenziale
all’interno di un definito contesto socio-culturale problematico,
però, se lui si mettesse nei miei panni, ovvero quelli di uno
spettatore occidentale che ha memoria ed esperienza di un cinema
proveniente dall’Asia, e in particolare dal sud-est asiatico, credo
sarebbe d’accordo nell’affermare che </span><i style="text-align: left;">Diamond Island</i><span style="text-align: left;"> </span><span style="text-align: left;">(2016)
manca di quella stordente alterità che in passato ci ha letteralmente
ribaltato dalla poltroncina della sala. Al sottoscritto, qui, tutto è
sembrato troppo pulitino, una messa in scena orizzontale di drammi
non particolarmente ficcanti, un’intelaiatura narrativa che si
muove su binari prevedibili e una squadra di attori in erba che fa
quel che può alle prese con dei ruoli monodimensionali. Se si è
benevoli si potrebbe considerare la pellicola come un lavoro sincero
perché si intuisce che è stata pensata, prodotta e girata... in
buona fede, ma trovare dell’altro oltre la tiepida simpatia che
suscita la vedo difficile.</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">E dire che di argomenti
sul tavolo Chou ne mette parecchi: la condizione dei poveri
lavoratori che si spostano dalle campagne della Cambogia verso la
capitale per guadagnare qualcosa in più da mandare a casa, Phnom
Penh e lo squilibrio tipico delle megalopoli che si trovano a quelle
latitudini con i grandi contrasti irrisolti tra progresso tecnologico
e tradizione (l’isola del titolo è un sito ultra moderno in
costruzione collegato alla città da un ponte), le relazioni amorose
tra i ragazzi del luogo (c’è un focus sul giorno di San Valentino
che ha più o meno la stessa nostra valenza con però maggiore
accento sulla componente sessuale), i legami di una famiglia
interconnessi con le strade del futuro (gli Stati Uniti come terra
promessa) e messi a dura prova da un evento luttuoso. È innegabile
che tali questioni siano presenti in </span><i style="text-align: left;">Diamond Island</i><span style="text-align: left;"> ma è
altrettanto innegabile che sono tutti affrontati all’acqua di rose,
il risultato è che questa è una visione che non incide, passa,
scorre e la si dimenticherà molto presto. Da una premessa del
genere, e in relazione al fatto che voglio sfruttare al meglio il mio
tempo libero, non darei un’altra chance a Davy Chou.</span></p>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Ah: caruccia la scena
della neve.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-9479338065092288882023-11-08T00:00:00.002+01:002023-11-08T00:00:00.129+01:00Soy tan feliz<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjG4WVVEEuWgO6uh5VlCT-20XRvz_qFL7oNU00iXWhEALpriJiYGENlRSADWQlchGgBSkeyd_hrYRUEyUcXp1iZpX9kbGDLag0fhEuAu3_w3S99kLtTGuwiqPYwtdjU7VVaSWBtsRRWEBbHVN9hpc39gaT4o4MgrbrnarP9fHlJZNsHjALrxoR-o5e7Z1k/s2697/soy%20tan%20feliz.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2697" data-original-width="1863" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjG4WVVEEuWgO6uh5VlCT-20XRvz_qFL7oNU00iXWhEALpriJiYGENlRSADWQlchGgBSkeyd_hrYRUEyUcXp1iZpX9kbGDLag0fhEuAu3_w3S99kLtTGuwiqPYwtdjU7VVaSWBtsRRWEBbHVN9hpc39gaT4o4MgrbrnarP9fHlJZNsHjALrxoR-o5e7Z1k/w223-h320/soy%20tan%20feliz.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Sei anni prima di </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2023/05/adios-entusiasmo.html">Adiós entusiasmo</a></i><span style="text-align: left;"> (2017) il regista
colombiano Vladimir Durán si cimenta in un cortometraggio “semplice”
ma non banale, o almeno non troppo, </span><i style="text-align: left;">Soy tan feliz</i><span style="text-align: left;">
(2011) ha infatti dalla sua la qualità di non voler strafare, di
cogliere, seppur in un contesto finzionalizzato, la realtà di tre
fratelli focalizzandosi in particolare sul rapporto esistente tra due
di essi, Mateo, il più grande, e Bruno, un ragazzone dagli occhi
dolci con forse qualche problema cognitivo. Il ritratto di questa
famiglia, che non ha niente a che vedere con quella
iper-disfunzionale del lungometraggio successivo, è in linea con
quel cinema non commerciale arrivato dal Sudamerica dall’inizio del
nuovo millennio in poi, mi riferisco ad una capacità della settima
arte di insinuarsi con discrezione in una bolla locale facendo a meno
di ridondanti sovrastrutture, la recitazione appare ridotta al
minimo, la scrittura è appena appena percettibile e in generale il
tasso di impostazione rimane al di sotto della soglia di allarme.
Reygadas ci ha costruito una rispettabile carriera perseguendo
dettami del genere, Durán, che di mestiere fa principalmente
l’attore, non verrà ricordato per le sue abilità registiche ma
questo suo lavoro, che mi risulta essere un esordio, si dà a noi
così come il sottoscritto ha provato a descrivere.</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">La
svolta, interessata a fornire una possibile significazione al
frammento visivo di cui siamo spettatori, arriva con il finale dove
si verifica una piccola catarsi sessuale che legittima dei passaggi
precedenti. In sostanza ciò che ci arriva è il profilo di un
ragazzo che vede nel fratello maggiore un modello da imitare (la
rasatura dei capelli) e verso il quale prova un amore che trascende
la consanguineità per farsi fisico, ferino, istintivo. Non si potrà
dire che la conclusione sia memorabile, però il set semi-desertico
ed il relativo contatto ravvicinato con la terra non è male,
nell’abbandono a sé stesso di Bruno supino sull’erba e in preda
ai suoi tormenti, emerge un primo piano che non sfigurerebbe in
un’opera di un altro Bruno, Dumont, girata intorno alla prima
decade degli anni zero. Bei tempi.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-31785742967814819552023-11-07T00:00:00.072+01:002023-11-07T00:04:11.643+01:00Tlamess<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQ9Pnzyr4CKjDrdhyxqnXEIunnwMASc6E9N_JVu52PR2rP_qJ1FY2IPT7e1CTURvII5F55H48-ArmTDzP4NPzYLZFaFI-UJHkYrIx7nWCbDUUDf1nxOdxePCu-YRl7w5hdWjrtz7H5cLIlVZ2XxzgzYyfphDABsIwmbOruX7Xcq2LLAXC8MsIQEqfzKL0/s1415/tlamess.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1415" data-original-width="1000" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQ9Pnzyr4CKjDrdhyxqnXEIunnwMASc6E9N_JVu52PR2rP_qJ1FY2IPT7e1CTURvII5F55H48-ArmTDzP4NPzYLZFaFI-UJHkYrIx7nWCbDUUDf1nxOdxePCu-YRl7w5hdWjrtz7H5cLIlVZ2XxzgzYyfphDABsIwmbOruX7Xcq2LLAXC8MsIQEqfzKL0/w228-h320/tlamess.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">È molto, molto simile al
precedente </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2023/10/the-last-of-us.html">The Last of Us</a></i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">
(2016) questo </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>Tlamess</i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">
(2019), lo è nello scheletro che lo costituisce, una bipartizione
oltremodo netta, e lo è nella parziale asimmetria delle due
sezioni, secondi tempi diversi dai primi con dei ma. Andiamo per
gradi: l</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">autore (massì, insigniamolo di tale carica) tunisino Ala
Eddine Slim accende l</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">apparato narrativo con una fuga, è quella di
un soldato che sfruttando una settimana di congedo decide di
abbandonare l'uniforme e fuggire non si sa verso dove, nella realtà
filmica c</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">è una precisa sovrapposizione con </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>Akher
Wahed Fina</i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">,
là era un clandestino che tentava di andare altrove, qui è un uomo,
altrettanto disperato, che vuole evidentemente lasciarsi alle spalle
un mondo che non gli appartiene (e non solo a lui visto il suicidio
del commilitone). In questo frangente, che dura quaranta e rotti
minuti, Slim si concede qualche licenza tecnica da non disprezzare,
diciamo che esteticamente hanno i loro perché dei carrelloni che
esaltano il paesaggio urbano, sospesi movimenti laterali o efficaci
regressioni visive che cambiano la percezione della visione, come se
“qualcosa” di strano, oltre la storia del fuggitivo sullo
schermo, aleggiasse continuamente nella scena. La mano del regista,
quindi, si sente e si vede, non parliamo di un esemplare asciutto,
radicale, oltranzista, piuttosto una via di mezzo sbilanciata
comunque sul versante d</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">essai, certo è che una volta delineato
l</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">eclissarsi del militare (chiudiamo un occhio sulla trama che si
piega all</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">esigenza di farlo scappare via nonostante l</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">arresto) era
necessario imprimere una svolta, io stesso, dalla mia postazione di
spettatore, ne ho avvertito la necessità perché altrimenti l</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">opera
avrebbe rischiato di inaridirsi, e Slim non si fa attendere
concedendosi un interessante pedinamento del fuggiasco nudo e
insanguinato con una bella partitura di chitarre distorte ad
accompagnare le immagini ferine. In pratica </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>Tlamess
</i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">inizia,
o meglio, ri-inizia da qua.</span></div>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span lang="it-IT" style="text-align: left;">Senza
esagerare in elucubrazioni tramiche che tanto non ce n</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">è bisogno,
ciò che funziona del </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>second half</i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">
è lo scollamento quasi totale con il blocco iniziale, ma è quel
“quasi” che fa la differenza: c</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">è un</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">ellissi che disorienta, nel
lasso di tempo intercorso, non breve a giudicare dalla capigliatura
del protagonista, accadono fatti a noi tenuti nascosti, S (per
entrambe le pellicole di Slim le schede sui vari siti indicano con
una sola lettera i nomi dei suoi personaggi) acquisisce una
consapevolezza differente, lui stesso sembra una persona diversa, per
di più parecchio somigliante all</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">eremita di </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>TloU</i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">
al punto di farmi pensare ad un</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">ipotetica connessione interfilmica,
sia quel che sia, con l</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">apparizione del nuovo S, una sorta di
sciamano boschivo, anche il film prende una traiettoria decisamente,
ma decisamente, sovrannaturale. Qualche dettaglio l</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">avrei rifinito
meglio (l</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">illustrazione dell</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">infelicità esistenziale della donna è
un po</span><span style="text-align: left;">’ </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">scolastica; il serpentone in CGI è da rivedere, al pari del
neonato che non mi è parso un bimbo in carne e ossa), per il resto
lo sviluppo che la narrazione ha sa catturare l</span><span style="text-align: left;">’</span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">attenzione,
tuffandosi in una dimensione astratta </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>Tlamess
</i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">si
affranca dalle costrizioni del racconto e inizia a folleggiare come
più gli garba. Forse nella parabola umana che viene a modellarsi ci
sono dei rimandi religiosi, se non addirittura dei veri e propri
simboli (il rettile tentatore) che hanno degli echi – ora esagero –
biblici. In generale l</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">allestimento di questo strambo rapporto
uomo-donna, gestito per mezzo dell</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">eccellente escamotage della
telepatia ottica, regge anche in raffronto al contesto ambientale
circostante di cui si avverte la presenza tra la schiuma del mare ed
il muschio del bosco.</span></p>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Le conclusioni ordunque non divergono troppo da quelle del
lungometraggio d</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">esordio. Slim è indubbiamente uno da appuntarsi
nella propria lista, con il lavoro sotto esame conferma e rafforza la
sua posizione di filmmaker con idee e voglia di sorprendere. Quello
che il sottoscritto gli imputa è: l</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">aver ricalcato in modo marcato
le modalità espositive del debutto, e l</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">appoggiarsi ancora un po</span><span style="text-align: left;">’ </span><span style="text-align: left;">troppo al registro finzionale e alle implicazioni che ne conseguono,
se si riducesse tale vena artificiosa allora le cose diventerebbero
assai intriganti, e, dati i presupposti, nulla vieta che possa
accadere, il che ci farebbe posizionare in primissima fila pronti a
goderci le trovate del tunisino.</span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEibBVQqEARl0W4KA_vE0RyJ3rRxhMCEXDOTVoYhXN0uXV6KjY4HPTPWCzUSxozm-l_dOxpQ9iPPRUzN2hm9F9UjH5tVYRfYkopTA2X86k5SOfFbYNIV2dmAlZuHRBej9GYxoqbLfEM-br-NmHec6KfVsr8EbJBr49qFzU3ClnZ4qCbWOMs21wSVWqQjCdc/s1920/Tlamess%202.JPG" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1041" data-original-width="1920" height="173" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEibBVQqEARl0W4KA_vE0RyJ3rRxhMCEXDOTVoYhXN0uXV6KjY4HPTPWCzUSxozm-l_dOxpQ9iPPRUzN2hm9F9UjH5tVYRfYkopTA2X86k5SOfFbYNIV2dmAlZuHRBej9GYxoqbLfEM-br-NmHec6KfVsr8EbJBr49qFzU3ClnZ4qCbWOMs21wSVWqQjCdc/s320/Tlamess%202.JPG" width="320" /></a></div><p></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-20374001165039333402023-11-06T00:00:00.001+01:002023-11-06T00:00:00.134+01:00Crystal World<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQHQPNnnIKyKTALdl6CgU5IgOBbq7QEWD52upWjrjFhGhASBMejKhLbUeB7QIQQcqwKaf1joKBWzwkXnO4KnIY-ck1Uto_ZJclOmZKGtnoyCv-w2d7Vi8Qlo0mzZe9Y5JkjLMwjE1xrhSKZuh8lW3hGXkclGEBzInF3j1qU6I_c7E2LKRN9aaPTjVS-Yg/s747/crystal%20world.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="747" data-original-width="498" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQHQPNnnIKyKTALdl6CgU5IgOBbq7QEWD52upWjrjFhGhASBMejKhLbUeB7QIQQcqwKaf1joKBWzwkXnO4KnIY-ck1Uto_ZJclOmZKGtnoyCv-w2d7Vi8Qlo0mzZe9Y5JkjLMwjE1xrhSKZuh8lW3hGXkclGEBzInF3j1qU6I_c7E2LKRN9aaPTjVS-Yg/w216-h320/crystal%20world.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">In </span><i style="text-align: left;">Crystal
World</i><span style="text-align: left;"> (2013) c’è un pizzico di Bertrand Mandico e forse anche
uno di Guy Maddin perché ciò che l’australiana Pia Borg ha
compiuto nel suo lavoro breve è, mi si passi il termine, una
rimodernizzazione di protocolli cinematografici d’antan, e quindi
vale tutto per concorrere al modellarsi di un prodotto che trasuda
artigianalità ma anche, va detto, professionalità. Tratto da un
romanzo di Ballard tradotto da noi col titolo </span><i style="text-align: left;">Foresta di
cristallo</i><span style="text-align: left;">, il corto, servendosi
dei paradigmi dell’animazione weird, sicché stop-motion e tecniche
equipollenti, e operando di taglia e cuci su </span><i style="text-align: left;">La
morte corre sul fiume</i><span style="text-align: left;">
(1955) di Charles Laughton, diventa apertura su un mondo d’apnea,
sotto una superficie che è anche sopra, che forse è un </span><i style="text-align: left;">tutto</i><span style="text-align: left;">
o qualcosa che le si avvicina. La brevità dell’oggetto in siffatti
casi non aiuta, o meglio, non aiuta uno spettatore incatenato alla
razionalità, chi al contrario preferisce mollare le redini canoniche
e affidarsi all’artista di turno troverà asilo in forme espressive
variegate e, seppur ammantate da una certa decadenza, vivaci.</span></div>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span lang="it-IT" style="text-align: left;">Se
le reiterate immagini subacquee della donna riportano per forza di
cose fuoriorarie a Vigo, la composizione globale, e proprio di questo
si tratta: di un composto, fa fede ad un concetto di videoarte –
credo – abbastanza moderno. Non sperimentale, non avanguardistico:
contemporaneo, dentro al tempo che abita, almeno dal punto di vista
concettuale e realizzativo. Ammaliante e pure “scomodo” per
l’inquietudine che diffonde il corredo sonoro, se la Borg aveva
come obiettivo quello di allestire una realtà in progressiva
solidificazione (e leggete la parola con una accezione negativa)
penso sia condivisibile ammettere che ci sia riuscita, la
cristallizzazione permanente, un po’ gotica un po’
švankmajeriana, trasmette le vibes adeguate. Ah, e quelle stalagmiti
che salgono verso l’alto non ricordano il video di </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>Crystalline
</i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">girato
da Gondry? Volendo sì, è solo un’altra suggestione che
arricchisce il prestigioso parterre dei rimandi.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-41804383790731644032023-11-05T00:00:00.009+01:002023-11-05T17:21:19.624+01:00Edificio España<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiyoR_lxXoekyxScw6wwWaNfeZRV5bLS5rVy6VGWTNO6j6DgsIDBiLBloCdeRvYMmHB2Ro-5b-xcMJfUpCmXQk_wqPtEAhsyUPyLCI1uq0mR9_GGDCe7hJHE5Aneby8iNHrjwp2dbF9s9gyPArVkGjfKlfnaTTpNuQv0pkCVJw08bPTPLbTF3QCvDI3Tyo/s1200/edificio%20espana.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="842" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiyoR_lxXoekyxScw6wwWaNfeZRV5bLS5rVy6VGWTNO6j6DgsIDBiLBloCdeRvYMmHB2Ro-5b-xcMJfUpCmXQk_wqPtEAhsyUPyLCI1uq0mR9_GGDCe7hJHE5Aneby8iNHrjwp2dbF9s9gyPArVkGjfKlfnaTTpNuQv0pkCVJw08bPTPLbTF3QCvDI3Tyo/w224-h320/edificio%20espana.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Nonostante le visioni a
firma di Víctor Moreno siano state, ad oggi, soltanto due, riesco a
rintracciare una continuità tra di esse, un collegamento tanto
semplice quanto efficace: se </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2023/09/the-hidden-city.html">The Hidden City</a></i><span style="text-align: left;"> (2018) si
occupava di mostrarci cosa si cela nel sottosuolo di Madrid, </span><i style="text-align: left;">Edificio
España</i><span style="text-align: left;"> (2014) fa l’esatto
contrario, ovvero si interessa a ciò che sta sopra, a ciò che è
ben visibile da chiunque nella capitale spagnola. Il regista ha un
obiettivo preciso, un grattacielo che si chiamava proprio come il
titolo del film ubicato di fronte a Plaza de España e costruito sul
finire degli anni ’40 a manifesto del potere franchista. Moreno
arriva con la sua videocamera nel 2007 all’interno del palazzo a
seguito dell’acquisto da parte del Banco Santander che all’epoca
aveva deciso di reinvestire sull’Edificio compiendo un’imponente
ristrutturazione interna in modo da trasformarlo in un hotel. Il
documentario si ferma qua, nel senso che coglie il momento di
transizione tra passato e un ipotetico futuro, ma la storia,
consultabile in Rete, dirà poi che il progetto pensato dal potente
istituto di credito naufragherà nel 2010 lasciando i lavori di
rifacimento in completo abbandono, solo nel 2014, con l’ingresso di
un gruppo cinese, la si tuazione sembrò vicina a sbloccarsi ma nei
fatti si dovette attendere il 2017 con un ulteriore passaggio di
proprietà al Baraka Group affinché si potesse dare nuovo lustro al
prestigioso immobile. Solo nel 2019 l’hotel quattro stelle Riu
Plaza España ha finalmente aperto i battenti, della sua lunga e
travagliata vicenda </span><i style="text-align: left;">Edificio España</i><span style="text-align: left;">
diventa allora una piccola e, perché no, anche preziosa,
testimonianza visiva</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Per impostazione e
contesto ispanico viene quasi automatico pensare a </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2020/11/en-construccion.html">En construcción</a></i><span style="text-align: left;">
(2001), ci sono evidenti differenze, geografiche: Barcellona, e
pratiche: perché l’opera di Guerín, come da nome, aveva
l’intenzione di esporre un processo di edificazione urbano andando
poi a captare qualche affluente esistenziale che passava di lì,
quella di Moreno, viceversa, si concentra su una </span><i style="text-align: left;">destrucción</i><span style="text-align: left;">,
su uno smantellamento riprendendone, seppur in maniera non
accuratissima, i diversi passaggi che portano i detriti fino alla
discarica. Però la radice dei due lungometraggi è proprio similare,
si tratta in entrambi i casi di porre il cinema in un cantiere e di
far sì che arrivi allo spettatore una realtà scevra di inutili
filtri. Rispetto al successivo </span><i style="text-align: left;">La ciudad oculta</i><span style="text-align: left;">,
</span><i style="text-align: left;">Edificio España</i><span style="text-align: left;"> è un
oggetto decisamente più grezzo, e su questo credo non ci siano
dubbi, lo si apprende dalle protratte sequenze con camera a mano
traballante, da certi tagli un po’ repentini, dalla scelta di
affidarsi solo alle luci naturali e soprattutto dalla mancanza di una
matrice estetica davvero incisiva. Però, pur mancando di “bellezza”,
il film include e dirama una genuinità da non disprezzare, nella
rassegna di esseri umani che orbitano intorno all’edificio, nella
maggior parte dei casi muratori, addetti alla sicurezza e tecnici
vari, c’è spazio anche per narrazioni che esulano
dall’illustrazione: c’è la storia di un fantasma e quella di
un’intera vita passata in un appartamento. Non una proiezione
trascendentale ma vedere queste laboriose cellule con caschetto
intente a rivitalizzare un gigantesco corpo morto fatto di cemento
armato, non è, come si abusa dire, così male.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-52843415178843612022023-11-04T00:00:00.010+01:002023-11-05T17:25:23.379+01:00La montagne magique<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhbiGUJcIjg165qbGRLKp_bVAdH3N7DP75QTWsqH1NXUfUvtUy8tYJS4cT8tphfHiU-oGBf78eccGK3YqhhvBPxhHJHhbIlU77TqkQuxftAP-5dCw-PNfKDVDhmL2u38_0bK821MWenJHD2_k9Exfvf7bHB_HutDriFPx9CIeiruyhLjDXC2SNtXYHTmjM/s1350/la%20montagne%20magique%202015.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1350" data-original-width="1000" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhbiGUJcIjg165qbGRLKp_bVAdH3N7DP75QTWsqH1NXUfUvtUy8tYJS4cT8tphfHiU-oGBf78eccGK3YqhhvBPxhHJHhbIlU77TqkQuxftAP-5dCw-PNfKDVDhmL2u38_0bK821MWenJHD2_k9Exfvf7bHB_HutDriFPx9CIeiruyhLjDXC2SNtXYHTmjM/w235-h320/la%20montagne%20magique%202015.jpg" width="225" /></a></div><div style="text-align: justify;">Chi ha visto <i>Crulic - The Path to Beyond</i> (2011) [1] sa che il temperamento della rumena Anca Damian è di quelli da tenere sotto stretta sorveglianza, il punto di base è che l’animazione permette di implementare le proprie forme espressive, e quando le cose vanno bene ne giovano tutti, sia i registi che gli spettatori. Rispetto al film precedente appena citato <i>La montagne magique</i> (2015) riduce il suo impegno civile o, se vogliamo, il suo essere “cinema di denuncia”, in favore di una narrazione a più ampio respiro che cavalca una biografia personale a sua volta ancorata alla collottola del grande bisonte della Storia. L’attenzione della Damian è riposta nella figura di Adam Jacek Winkler, un personaggio decisamente eclettico nato in Polonia interessato alle discipline più disparate, dalle arrampicate al disegno passando per la fotografia e il giornalismo. Dall’opera in esame riceviamo inizialmente un paio di informazioni, quella che più spicca è una certa insofferenza verso il regime sovietico che punzecchia dal suo esilio parigino, ma le cose entrano davvero nel vivo quando Winkler decide di partire per l’Afghanistan, nel Panjshir, e combattere insieme ai mujahideen gli invasori russi. Arrivati qui il sottoscritto ha avuto una piacevole epifania, di quelle che ti fanno credere, nonché sperare, che vi siano collegamenti sotterranei tra manufatti artistici distanti tra loro, perché la vicenda a cui assistiamo è praticamente la medesima vissuta da William Vollmann descritta in <i>Afghanistan Picture Show: ovvero, come ho salvato il mondo</i>, memoir di resistenza non senza autoironia ristampato nel 2020 da minimum fax. Che vantaggi comporta questa associazione tra cinema e letteratura? Nessuna. Però è in un qualche modo bello constatare che esistono sentimenti simili anche tra esseri umani agli antipodi. </div><div style="text-align: justify;">La struttura pensata dalla regista è alla lontana documentaristica perché abbiamo un lungo commento fuori campo, che in realtà è un dialogo con la figlia (accreditata come co-sceneggiatrice), da parte di Winkler sulle immagini che scorrono in video. Ma appunto le immagini: il piatto forte della Damian risiede proprio nell’estro che è riuscita ad imprimere all’estetica della pellicola, un lavoro che penso chiunque potrebbe definire minuzioso perché i suddetti chiunque non hanno idea dei processi creativi che ne sottendono la realizzazione. La percezione che se ne ha è un variegatissimo patchwork che unisce tecniche e stili, la classicità delle due dimensioni si innesta in visioni tridimensionali così come scampoli di stop-motion sbucano all’interno di curiosi collage fotografici tra realismo e una sua rappresentazione. Se di primo acchito si è un po’ frastornati da cotanta versatilità, con l’avanzare della proiezione le frequenze si assestano riuscendo a farci entrare nell’atmosfera del film, che è cruda occupandosi di una guerra, ma anche malinconica essendo in buona sostanza il lungo flashback di una persona che non c’è più e che ha avuto una vita incredibile. Certo, qualcuno potrà anche ritrarsi al cospetto di un titolo del genere, del resto cosa può avere di stuzzicante un biopic animato che bazzica in territori afghani? Vero. Occhio però, in quanto abitanti di questo pianeta suggerirei di non snobbare troppo situazioni ed eventi che avvengono a migliaia di chilometri da noi, non è ovviamente solo l’arte ad essere potenzialmente connessa in un reticolo di intuizioni e impressioni, ci sono aspetti costantemente urgenti da comprendere, e un oggetto nascosto come <i>La montagne magique</i> può essere un buon viatico alla conoscenza. Sull’argomento vale la pena recuperare anche <i><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2017/10/bitter-lake.html">Bitter Lake</a></i> (2015).</div><div style="text-align: justify;">____________________</div><div style="text-align: justify;"><span style="font-size: x-small;">[1] E io l’ho visto, e ne avevo pure scritto, però per ragioni a me oscure non c’è più traccia di quel post qui sul blog. È la prima volta che succede, o almeno è la prima volta che me ne accorgo, magari sono spariti decine e decine di altri post. Non ho idea di cosa sia successo, di certo il mondo continuerà ad andare avanti come sempre, voi, nel mentre, ricordatevi che esiste in mezzo al tempo la possibilità di un’isola.</span></div>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-29279617379343979282023-11-03T00:00:00.040+01:002023-11-03T00:23:39.972+01:00If ou le rouge perdu<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgVFkPqGWeI-W8s4LiHpeFTUF0aIWdvGXCNEMqDq1E54MfxRlBJ3YRF5KV_EnM3hl4IfAO07f6zjfJt-QxEn0y1Xv3UX6pn0W2XyFJYtlff2iHMiIpE8aT4ic08n8OkNEwTxBh2OQZScvkclUfBH4Medp6nEuSZ0LW7xWxURcJrRhyphenhyphenBdH8n0xVJbmpo8M0/s1800/If%20ou%20le%20rouge%20perdu%20(2016).jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1800" data-original-width="1200" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgVFkPqGWeI-W8s4LiHpeFTUF0aIWdvGXCNEMqDq1E54MfxRlBJ3YRF5KV_EnM3hl4IfAO07f6zjfJt-QxEn0y1Xv3UX6pn0W2XyFJYtlff2iHMiIpE8aT4ic08n8OkNEwTxBh2OQZScvkclUfBH4Medp6nEuSZ0LW7xWxURcJrRhyphenhyphenBdH8n0xVJbmpo8M0/w214-h320/If%20ou%20le%20rouge%20perdu%20(2016).jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Criptico
cortometraggio animato diretto da una regista canadese di nome
Marie-Hélène Turcotte, </span><i style="text-align: left;">If ou le rouge perdu</i><span style="text-align: left;">
(2016) ruota su un perno che potremmo definire in prima battuta
venatorio, l</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">illustrazione in movimento riguarda infatti quello che
sembra un episodio di caccia ai danni di un uccello (nelle
descrizioni in Rete viene individuato come un fagiano), ma le
situazioni che si generano sullo schermo suggerirebbero uno
sfondamento della banale immagine di una donna armata di fucile che
insegue un volatile, si subodora dell</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">altro che attinge a quello che
forse è il passato della cacciatrice o magari, in un</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">ottica più
ampia, un passato universale. Il titolo inglese potrebbe aiutare: </span><i style="text-align: left;">Red
of the Yew Tree</i><span style="text-align: left;">, in italiano lo
“yew tree” è il tasso, una conifera dalle caratteristiche
escrescenze rosse molto velenose che <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Taxus_baccata">Wikipedia</a> ci dice essere
conosciuta anche come “albero della morte”. Ecco, una sensazione
che esce fuori dal film possiede uno spessore funebre, non si sa come
né perché ma rimane abbastanza impressa la cifra mortuaria che la
Turcotte ha inserito nel suo lavoro, e non che vi siano chissà quali
lugubri manifestazioni, però l</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">abbraccio che unisce i due esseri
viventi del corto pare il medesimo tanto che, ma questa è
un</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">interpretazione del tutto personale, ho visto una sovrapposizione
tra la ragazza e il fagiano, un destino comune, una fusione nel
rosso-sangue simbolizzata dalle bacche della pianta.</span></div>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Dal
punto di vista tecnico </span><i style="text-align: left;">If ou le rouge perdu </i><span style="text-align: left;">è
gradevole senza tuttavia rendersi memorabile. Lo sfondo bianco fa da
cornice nella quale germogliano in rapida successione brevi bozzetti
in punta di matita, a parte i significativi rimandi vermigli non ci
sono altri colori, i tratti sono essenziali, il minimalismo domina
l</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">estetica dell</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">opera, di contro l</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">apparato sonoro mirato ad
esacerbare quanto accade in video “riempie” l</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">impianto basic
della forma, in altre parole pur non vedendo effettivamente un bosco
o un ruscello li sentiamo il che equivale a vederli, ma in un altro
modo. Piuttosto, se devo avanzare una perplessità verso l'impegno
della Turcotte (e per l</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">ennesima volta sottolineo che per noi è
facile giudicare senza sapere realmente cosa vuol dire operare nel
campo dell</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">animazione), lo faccio rimarcando una fluidità non sempre
al top, in alcuni frangenti ho ravvisato delle movenze un po</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;"> vischiose, carenza che in maniera similare riscontrai in produzioni
che bazzicavano territori simili (ricordo il russo Petrov o, mamma
mia, il giapponese Ujicha), anche se qua l</span><span style="text-align: left;">’</span><span style="text-align: left;">effetto rallenti è meno
vistoso e quindi si giunge alla fine con moderata scioltezza.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-13416006076613978532023-11-02T00:00:00.003+01:002023-11-02T21:11:05.977+01:00Labour of Love<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj4o9VvJ90PQgi3aAl2aMExrqTjz88HQWXHY7ZHdsNIZ3XxzLU5RQha1pFhv05ahpChxKuLOU6yonIESrutVAY4j8xcz8jrgFnu2EUIMcgDAEmyAg5GL1Y22n_KXQGZoCSYwmfvngJ7HkECzSakCUFZ1ZXM3mYURuK_-ziLZ_1rn8jFWPX6iVfvhDKYjaw/s800/labour%20of%20love.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="566" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj4o9VvJ90PQgi3aAl2aMExrqTjz88HQWXHY7ZHdsNIZ3XxzLU5RQha1pFhv05ahpChxKuLOU6yonIESrutVAY4j8xcz8jrgFnu2EUIMcgDAEmyAg5GL1Y22n_KXQGZoCSYwmfvngJ7HkECzSakCUFZ1ZXM3mYURuK_-ziLZ_1rn8jFWPX6iVfvhDKYjaw/w227-h320/labour%20of%20love.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Lui e lei a
Calcutta in un appartamento disordinato che si affaccia su un vicolo,
un nido, un presidio dove poter tornare dopo un giorno di lavoro, uno
spazio che però non può essere condiviso. Il primo film di Aditya
Vikram Sengupta esplora questa faglia che separa la coppia, e lo fa
con grande autorialità tanto che </span><i style="text-align: left;">Asha Jaoar Majhe</i><span style="text-align: left;"> (2014), per
modalità (assenza di dialoghi) e tempistiche (decisamente </span><i style="text-align: left;">slow</i><span style="text-align: left;">),
potrebbe provenire da qualche Paese ancora più a oriente, come la
Thailandia o Taiwan. Nell’illustrarci la giornata tipo del duo, il
regista indiano si focalizza su quei piccoli gesti che formano
l’ordinaria quotidianità, il quadro che ne risulta ha una specie
di struttura speculare perché, sebbene le cose non siano troppo
esplicite, c’è una corrispondenza tra le azioni del ragazzo con
quelle della ragazza, delle rime visive che riguardano la
preparazione del pasto, il riposo a letto, il chiamarsi sul cellulare
a mo’ di sveglia, il riporre qualche moneta nel salvadanaio, tutte
queste immagini ricorsive contribuiscono a dare musicalità ad
un’opera che per lo spettatore con poca pazienza potrebbe apparire
ferma, bloccata nella micro-situazione di cui si occupa. La premessa
che sta dietro alla storia narrata e che viene esplicitata
nell’introduzione su sfondo nero, concerne una crisi economica che
affligge l’India, una recessione che colpisce maggiormente le
professioni umili, è un’informazione lanciata lì, non
approfondita, che però aiuta forse ad agevolare l’accesso
nell’asciutto racconto, se gli innamorati non si incontrano nemmeno
nella loro casa è perché qualcosa di più forte li obbliga a stare
lontani, un </span><i style="text-align: left;">qualcosa</i><span style="text-align: left;"> molto
semplice e universale: la necessità di tirare avanti facendo dei
sacrifici.</span></div>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">L’idea
di cinema che ha Sengupta è votata ad una massiccia estetizzazione,
certo non si sconfina nel surreale sfrenato di </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2021/05/jonaki.html">Jonaki</a></i><span style="text-align: left;">
(2018), anche se, va detto, la sequenza finale trova residenza in una
zona-oltre che non appartiene alla realtà, però l’impressione è
che vi sia una cura meticolosa dedicata ad ogni singola scena (si
veda come esempio l’attenzione riposta sul cibo), l’obiettivo
evidente è di conferire eleganza e raffinatezza al girato, traguardo
che, grazie ai numerosi carrelli laterali e ai morbidi spostamenti
della mdp, credo sia stato raggiunto. Annotati tali riscontri bisogna
capire che tipologia di settima arte si vuole vedere perché non
tutti gli spettatori potrebbero andare in brodo di giuggiole al
cospetto di un apparato eloquentemente finzionale. È anche vero che
</span><i style="text-align: left;">Labour of Love</i><span style="text-align: left;">, pur
proponendosi in una veste d’artificio, contempla un impianto
realistico che lascia filtrare dei raggi onirici, e probabilmente la
bravura che va riconosciuta a Sengupta sta proprio qua, ossia nella
capacità di aver reso la concretezza di due esistenze simili a
milioni di altre che sgomitano nel caos della megalopoli, sottilmente
speciale, finemente magica, nonché dotata di una tenue speranza per
i due protagonisti: di potersi sfiorare, anche se solo in sogno, poco
prima che il sole sorga nuovamente.</span></p>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Edit di 48 ore dopo: devo ammettere di essere stato un po’ freddo
nei confronti del film il quale, a distanza di due giorni dalla
visione, è fermentato e cresciuto non poco dentro di me. Penso che
se si riesce a scendere a patti con la patina formale la poetica
intimità che fuoriesce dagli umidi crocicchi di Calcutta valga il
cosiddetto prezzo del biglietto.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-16414962221098468562023-11-01T00:00:00.016+01:002023-11-01T00:28:28.007+01:00Days<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhgkvHL6dqFGjYQGbqUSbc_Xzwc7Tlf0xmmilfVK0njEmA408SpYz-03LtYW-thYrPFNw-3nMwTJ7uLUoEfoNr7fWUJrTtF7W7qt-kgE0YPQb2DFeU8AHcnmyas_-fvWuQ1MrtpaRm6Q4S-18BGIKFeMT375xQ-ycqRZaS5o8E5v7s-cbKcdxYci_99Lh8/s2543/days.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2543" data-original-width="1780" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhgkvHL6dqFGjYQGbqUSbc_Xzwc7Tlf0xmmilfVK0njEmA408SpYz-03LtYW-thYrPFNw-3nMwTJ7uLUoEfoNr7fWUJrTtF7W7qt-kgE0YPQb2DFeU8AHcnmyas_-fvWuQ1MrtpaRm6Q4S-18BGIKFeMT375xQ-ycqRZaS5o8E5v7s-cbKcdxYci_99Lh8/w227-h320/days.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Non può
esistere inizio più tsaiano di quello che apre </span><i style="text-align: left;">Rizi</i><span style="text-align: left;"> (2020):
Lee Kang-sheng che contempla un temporale oltre la finestra e subito
dopo sempre Lee immerso in una vasca colma d’acqua. Sappiamo tutti,
almeno coloro che conoscono il cinema di Tsai Ming-liang, quanto i
rimandi idrici siano una costante nella sua arte, e questa apertura
di </span><i style="text-align: left;">Days</i><span style="text-align: left;">, oltre che ricordarci
i tempi andati, è un po’ un dettaglio-manifesto perché qui il
regista di Taiwan ritorna a fare ciò per cui è diventato
insindacabilmente un Maestro. Da </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2016/02/stray-dogs.html">Stray Dogs</a></i><span style="text-align: left;">
(2013) in poi il percorso di Tsai ha abbandonato la si fa per dire
canonicità che fino a quel momento lo aveva caratterizzato per
sondare altri territori, in generale il sottoscritto non ha mai visto
niente capace di illuminargli realmente gli occhi, però non
riconoscergli una certa intraprendenza sarebbe da ottusi. Quindi, tra
monaci buddisti alla moviola e messe in serie di primi piani, un
titolo come quello sotto esame rappresenta una discontinuità col
presente ed un ricollegamento col passato. Dài, c’è così tanto
di </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2010/05/hole-il-buco.html">The Hole – Il buco</a></i><span style="text-align: left;">
(1998) o di </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2010/10/i-dont-want-to-sleep-alone.html">I Don’t Want to Sleep Alone</a></i><span style="text-align: left;">
(2006) che per un attimo mi è sembrato di essere tornato indietro di
dieci anni, quando ancora c’era davvero un’attesa febbrile prima
di visionare l’ultima produzione di un peso massimo contemporaneo.
Tuttavia, smaltito l’epidermico entusiasmo e una volta presa
confidenza con la proiezione, sono emersi degli elementi recapitanti un oggetto filmico che presenta ovviamente una forte
paternità autoriale e che allo stesso tempo ha degli attributi
“nuovi”, possibili frutti del recente tragitto artistico.</span></div>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Un
punto da cui partire è la drammaturgia della pellicola, che in
pratica non c</span><span style="text-align: left;">’è</span><span style="text-align: left;">. Non che prima avessimo a che fare con film
pesantemente </span><i style="text-align: left;">scritti</i><span style="text-align: left;">,
però in </span><i style="text-align: left;">Days </i><span style="text-align: left;">il
comparto narrativo è pressoché prosciugato, divelto, azzerato. La
trama, se così si può definire, si adagia su una sequenza fatta di
quadri intessuti di realtà tanto da mettere in discussione gli
amatiodiati confini della finzione. La dilatazione delle scene, forse
ai massimi livelli nella carriera dell’autore, mostra quelle che
sono delle banali routine quotidiane (preparazioni in cucina, sedute
di agopuntura), nonostante vi sia, perché lo si sappia: è ovunque,
a tratti si fatica a pensare che ci sia del cinema nell’osservare
per molti minuti un tizio che dorme beato su un materasso. I
propositi teorici di TM-l si situano però esattamente nella
struttura che ha dato alla sua creatura, nella ricerca di una
narrazione che è come se fosse già esistente nel mondo reale oltre
la mdp, come se la storia di questi due uomini si raccontasse indipendentemente dal fatto che vi sia qualcuno a riprenderla. Potrà
apparire ai più una bazzecola o al massimo un cruccio
intellettualoide, ma la rottura della membrana che separa la netta
impostazione da cosa non lo è, o non lo è del tutto, è un atto su
cui vale la pena ragionare perché squaderna una caratteristica
fondante del cinema attuale: il suo essere liquido, il suo penetrare
anche negli interstizi più angusti per far sì che ogni cosa possa
rientrare nella foggia cinematografica.</span></p>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Sul
mero piano dello sviluppo non posso dire che </span><i style="text-align: left;">Rizi </i><span style="text-align: left;">sia
sorprendente. Alla fin fine il principale obiettivo di Tsai è
rimasto inalterato da trent’anni a questa parte. L’essere umano è
fottutamente solo nella giungla metropolitana e ha bisogno di un
gesto, di un contatto, di una prossimità per poter sperare nel
domani. In tal senso la progressione del film è un bignami
Tsai-style in piena regola, attraverso le silenziose finestre che si
affacciano sulle vite di Kang e Non veniamo a conoscenza della loro
solitudine, e allora non sbalordisce troppo che ad un tratto vi sia
un incontro e che da tale incontro, sebbene normato dal denaro, nasca
qualcosa che, come la cattedra di Ming-liang insegna, non ha granché
a che fare col sesso, è proprio una questione radicata nell’animo dell</span><span style="text-align: left;">’uomo</span><span style="text-align: left;"> la necessità di riscaldarsi nell’altro. Ecco, i principi
sono lodevoli e indubitabilmente veri, diciamo che nell</span><span style="text-align: left;">’ universo </span><span style="text-align: left;">di Tsai
non sono propriamente un’innovazione e rivederli oggidì non
aggiunge nulla al discorso cominciato nel lontano ’89 o giù di
lì. Ma nemmeno toglie. Tant’è che descriverei </span><i style="text-align: left;">Days</i><span style="text-align: left;">
così: confortante, come ascoltare una canzone simile ad un’altra
che ti piaceva tanto, non tutto è giusto, non tutto è perfetto, ma
sapere che esiste, che il suono di un carillon può legare due
spiriti apparentemente senza destino, riesce a darmi forza e, nei
panni di essere vivente nonché di spettatore, a consolarmi.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-48357592140385780772023-10-31T00:00:00.001+01:002023-10-31T00:00:00.152+01:00Free World Pens<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhvbRPS7eOx_gJTXHHsHyZdFF83KpE_UtNEK_wjS8oBSD0BPwlzKGeXfn5a0Shxt9tkedInDaqVjguoZa7oficlgP8Ylr6XlDFjZVdYL-xAyIfu4pDujxp16hIknMLa4rp6_PvBfERNPyeYF5ZhbaF9F3Ic0beLWwfLeJnRBRebK8poPdOwvPHTrL-9dyY/s1499/free%20world%20pens%202015.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1499" data-original-width="1000" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhvbRPS7eOx_gJTXHHsHyZdFF83KpE_UtNEK_wjS8oBSD0BPwlzKGeXfn5a0Shxt9tkedInDaqVjguoZa7oficlgP8Ylr6XlDFjZVdYL-xAyIfu4pDujxp16hIknMLa4rp6_PvBfERNPyeYF5ZhbaF9F3Ic0beLWwfLeJnRBRebK8poPdOwvPHTrL-9dyY/w216-h320/free%20world%20pens%202015.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Il fratello,
senza che siano forniti ulteriori dettagli, viene incarcerato in una
prigione texana, la sorella ripercorre il periodo di detenzione
durato anni unendo il cinema e la scrittura.</span></div>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Non è
chiaro se i protagonisti di questo </span><i style="text-align: left;">Free World Pens</i><span style="text-align: left;">
(2015) siano effettivamente Nika Khanjani e suo fratello minore, non
sappiamo, in sostanza, se la storia narrata dal cortometraggio sia
vera o meno, ma in fondo questioni del genere passano in secondo
piano se l’esemplare artistico con il quale dobbiamo confrontarci è
più che decoroso a prescindere da un’eventuale veridicità dei
fatti. Del resto non mi è sembrato che la regista di origine
iraniana ma canadese d’adozione puntasse a fare un film di
denuncia, il taglio estetico che ha dato alla sua creatura e che
subito si fa peculiare, ha un’essenza che si occupa in prima
battuta del particolare ma che ad uno sguardo più ampio punta ad una
sorta di totalità, di grande abbraccio che accoglie in sé un oltre
rispetto al rapporto consanguineo raccontato sullo schermo. Premessa:
non c’è davvero niente di nuovo qua, la mossa della Khanjani è
risaputa: prendere la forza che risiede nell’intimità di una e
mille lettere per srotolarla su un corredo di immagini che non hanno
praticamente nulla a che fare con le parole proferite. Formula nota
che fa sempre il proprio sporco lavoro. E queste immagini: per
spararla grossa pare di rivedere le traiettorie raminghe del Malick
2.0, tutta sospensione e fluttuazione, in dolcezza. Il paragone non
può starci, ovvio, però assistere al movimento della videocamera
attraverso gli spazi e i tempi di Montréal suscita un po’ di
piacevole malia.</span></p>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">La
questione è che il contrasto tra le aperture ambientali e il focus
sul carcere accende il significato dell’opera, l’ossimoro è
specificatamente visivo, l’occhio è libero di girare in una città
in cui si avvicendano le stagioni mentre l’orecchio sente una
testimonianza di isolamento, di reclusione. Il discorso poi potrebbe
pure allargarsi diventando biunivoco. Non sono convinto al 100% che
la filmmaker abbia in tal senso centrato il bersaglio, ad ogni modo
ciò che emerge è una sofferenza che proviene anche dal versante
femminile, da colei che vive un’esistenza normale come tante altre,
è un malessere trasversale quindi che dovrebbe farci interrogare su
quali siano i confini di quella che chiamiamo libertà, e su come la
suddetta libertà venga spesso percepita erroneamente come una
gabbia, ma </span><i style="text-align: left;">Free World Pens </i><span style="text-align: left;">non
ha a mio avviso il potere di illuminare riflessioni così profonde,
si ferma qualche metro prima. E non gliene faccio una colpa.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-73058991206659445252023-10-30T00:00:00.013+01:002023-11-07T00:02:25.978+01:00The Last of Us<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSuoKpFTsJyf6bSJ8bAkO5svLvLzP4ST838yUu-q_nGha6BJVJAvviBPQ2yceAZ989P2u08F24wmKnLv77Y4srvqio1Scms1yljiOwhwMsvhKmmabEd3JeXY4NUCHGuxMSesN-SV1oalOD2zcK3jirPZsqdtHudVcWXP6MoKcl-Ope8EknT0pAmK-5sI0/s1030/Ala%20Eddine%20Slim%20the%20last%20of%20us.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1030" data-original-width="703" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSuoKpFTsJyf6bSJ8bAkO5svLvLzP4ST838yUu-q_nGha6BJVJAvviBPQ2yceAZ989P2u08F24wmKnLv77Y4srvqio1Scms1yljiOwhwMsvhKmmabEd3JeXY4NUCHGuxMSesN-SV1oalOD2zcK3jirPZsqdtHudVcWXP6MoKcl-Ope8EknT0pAmK-5sI0/w221-h320/Ala%20Eddine%20Slim%20the%20last%20of%20us.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Non credete
a ciò che si legge in giro, </span><i style="text-align: left;">Akher Wahed Fina</i><span style="text-align: left;"> (2016), primo
lungometraggio di finzione del regista tunisino Ala Eddine Slim
passato anche a Venezia ’16, è un film che si comprende piuttosto
agilmente perché ha un’evoluzione molto più lineare di quanto in
realtà mostra. Il punto di partenza è palesemente un richiamo alla
contemporaneità, e, devo ammetterlo, anche io ci sono cascato, nel
senso che ipotizzavo uno sviluppo esclusivamente sulla base di tale
avvio cronachistico attraverso la presenza di un macro-tema
(l’immigrazione in Europa) affrontato con metodo autoriale per
l’intera durata dell’opera, sicché la prima mezz’ora
introduttiva, oltre a farci capire il mood della storia (i dialoghi
sono assenti), si impegna a rappresentare una delle tante odissee che
si consumano qualche chilometro più a sud di dove abitiamo noi, e lo
fa con discreto piglio scaraventando il protagonista N in un
paesaggio che un giorno è lunare e quello dopo, a seguito di una
fuga (discreta l’improvvisa aggressione sul furgone) e di un altro
viaggio nel viaggio, è urbano in una qualche città del Nordafrica.
C’è del mestiere nella mano di Slim, l’attenzione agli scorci
paesaggistici, i contrasti diurni/notturni e la varietà degli angoli
di visuale fanno di </span><i style="text-align: left;">The Last of Us</i><span style="text-align: left;"> un prodotto di medio-alta
fattura, ed io ero pronto ad analizzare la pellicola senza mai
scostarmi da una visione che dialogasse in maniera serrata con le
notizie dei telegiornali, invece dopo il lungo preambolo N sale su un
guscio di noce per compiere una traversata che si preannuncia
impossibile. Qui il film cambia pelle, è innegabile, ma superato il
disorientamento iniziale, continuo a ritenere che la progressione
della vicenda sia piana e altamente accessibile.</span></div>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">L’importanza
della sequenza sulla barchetta è sottolineata dall’inserimento di
alcune didascalie dall’aperta interpretazione, è condivisibile
vedere nel tragitto sull’acqua una traslazione di innumerevoli
altri tragitti in chiave astratta. L’arrivo sulla terra
non-promessa dà il via ad un mutamento filmico, stop alla tragica
epica odierna a beneficio di un racconto che punta alle radici,
temperato da un corredo simbolico con vista sulla trascendenza.
D’improvviso un ricordo emerge dalle nebbie del tempo: </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2012/07/naufragio.html">Naufragio</a></i><span style="text-align: left;">
(2010) di Pedro Aguilera, pregevole stoccata dalle sembianze
dumontiane (quando Dumont faceva un certo tipo di cinema), che ha in
comune con </span><i style="text-align: left;">The Last of Us</i><span style="text-align: left;"> un
simile movimento dal concreto al metafisico lasciandosi dietro una
scia di mistero. Forse Aguilera arriva più in alto, ma anche Slim si
stacca dal suolo, il procedimento si accende verso la fine, prima
abbiamo una porzione illustrativa che a mio avviso mette in scena la
proiezione futuribile di N, ovvero M, il ragazzo è, e sarà,
l’eremita barbuto, in questo territorio libero dalle leggi della
razionalità è piacevole abbandonarsi a intuizioni esegetiche non
constatabili, per cui assistendo alla morte del vecchio potrebbe
compiersi un passaggio di testimone (al di là dell’età
anagrafica, i due per tratti somatici, capigliatura e vestiario si
assomigliano molto), il realizzarsi di un nuovo sé, sempre, però,
in una dimensione incerta, quasi purgatoriale. Giunti alla
sostituzione dei ruoli sullo schermo, è difficile intendere ancora N
come un profugo, la questione pare dissolversi in favore di una
discesa o ascesa verso l’originarietà, un precipitato di robe
universali e primitive. Mi sta bene, non ho molto da obiettare nei
riguardi della piega che la narrazione prende, se pensiamo all’uomo
come il fantasma di un corpo sul fondo del Mediterraneo in cerca di
una definitiva liberazione terrena il finale con la disgregazione
weerasethakuliana riconcilia l’istanza della carne con quella dello
spirito.</span></p>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">E
quindi, il debutto nella fiction di Ala Eddine Slim merita il nostro
sguardo? Credo di sì, tuttavia mi permetto di emettere
un’avvertenza: alla sopraccitata chiarezza del film velata da
un’enigmaticità che si risolve senza sforzi erculei, aggiungo che
questo cinema risulta troppo “pulito”, il motivo è dato dal
fatto che comunque trattiamo un registro di totale finzione e la cosa
si sente e si vede, se la corrente d’artificio si fosse prosciugata
nel canyon del reale ne avrebbe giovato l’intero impianto, allora
sì che la prima parte sarebbe risultata maggiormente pregna di
disperazione, solitudine e sconforto mentre nella seconda gli slanci
surreali (la palla di luce: affascinante) avrebbero fatto decollare
il tutto. Con serenità aspettiamo </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2023/11/tlamess.html">Tlamess</a></i><span style="text-align: left;">
(2019), se ne dice sia un gran bene che un gran male, i presupposti
sono ottimi.</span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="text-align: left;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiWZvof-v5NyNGAltYbNVcdyDR_b2eNhCqUNb7AqTPLRf0Nx2zKe7K47Po3oCYnRYFcAszjIhejAXiTh64X5owM8-oyREmKHrFAObxkPuVBWqZKIpfOL95BiAjzSk7K1O0KP-IMJFV2utqal4KnZ-bD9nNH5F_trilSRN0P0EPQCKtSr7s7Vx-Uak6L5W4/s1920/the%20last%20of%20us.png" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1040" data-original-width="1920" height="173" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiWZvof-v5NyNGAltYbNVcdyDR_b2eNhCqUNb7AqTPLRf0Nx2zKe7K47Po3oCYnRYFcAszjIhejAXiTh64X5owM8-oyREmKHrFAObxkPuVBWqZKIpfOL95BiAjzSk7K1O0KP-IMJFV2utqal4KnZ-bD9nNH5F_trilSRN0P0EPQCKtSr7s7Vx-Uak6L5W4/w322-h173/the%20last%20of%20us.png" width="320" /></a></span></div><p></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-28674341279139369622023-10-29T00:00:00.004+02:002023-10-29T21:11:06.256+01:00I’ve Seen the Unicorn<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiQLNS3eLdSID7fTNoblknP6yLrWVLHeCOUSop1fqJAKFNlzKwmL_0DHzFgwjYSG1csN4eWC_tTy9aUCWh7Xn-P1P8fcrnTpEekQZdsUtqYPKYFfL-_cIch-WGC3IVzY5NLiRODwbLpJ8RT-AnQeFQGozbbjvyQ4YoBmQPBw0jy8nFOQoRxQJkO9m3d4cs/s4500/i%20ve%20seen%20the%20unicorn.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="4500" data-original-width="3000" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiQLNS3eLdSID7fTNoblknP6yLrWVLHeCOUSop1fqJAKFNlzKwmL_0DHzFgwjYSG1csN4eWC_tTy9aUCWh7Xn-P1P8fcrnTpEekQZdsUtqYPKYFfL-_cIch-WGC3IVzY5NLiRODwbLpJ8RT-AnQeFQGozbbjvyQ4YoBmQPBw0jy8nFOQoRxQJkO9m3d4cs/w217-h320/i%20ve%20seen%20the%20unicorn.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2023/09/the-crying-conch.html">The Crying Conch</a></i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">
(2017), che arriverà tre anni dopo, pur essendo un cortometraggio
presenterà una fattura diversa rispetto a </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>I’ve
Seen the Unicorn</i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">
(2014), non dico migliore o peggiore (sì, presumo migliore, ma non
ne faccio una gara), però sicuramente più dentro ad un certo cinema
autoriale d’oggidì, festivaliero quanto si vuole ma comunque, a
tratti, piacevole. Qui il quadro in cui Vincent Toi si muove è
quello del documentario simil-etnografico, il regista gioca in casa
occupandosi di una manifestazione sportiva tipica della Repubblica di
Mauritius, una corsa equina chiamata Maiden Cup, strascico della
colonizzazione britannica terminata nel 1968, e, non a caso, il film
si apre su delle immagini d’archivio relative alla cerimonia di
indipendenza della nazione insulare. Sulla carta mi aspettavo un
approccio sociologico e magari anche storico con qualche licenza
contemplativa/astraente, nel concreto l’opera ha delle modalità
espositive nonché realizzative abbastanza basiche, il taglio dato
dal filmmaker è di tipo riprendo-la-realtà-e-poi-ci-lavoro-sopra,
che poi è il metodo di praticamente tutti coloro che campano con la
settima arte, ma per </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>I’ve Seen
the Unicorn </i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">la
cosa si vede e si sente in modo forse fin troppo chiaro. Tutto è,
diciamo, sotto controllo, nel depliant illustrativo mauriziano si
coglie una lieve ricerca di coralità che rimbalza da un ragazzino
con il sogno di diventare fantino, un fantino irlandese
professionista, un muratore rasta che ama scommettere sui cavalli e
altri soggetti connessi in qualche maniera alla competizione, nella
sua semplicità questa ragnatela di testimonianze può anche andare,
va da sé che non ci si può aspettare di trovare altro che non sia
ciò che vediamo.</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="font-style: normal; margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Che
poi le intenzioni di Toi credo di averle carpite, l’obiettivo era
di fornire il ritratto di un Paese che, seppur piccolo e sperduto in
mezzo al mare, fa parte del nostro tempo e di come tale Paese vive
tutt’ora il suo periodo post-colonialista, di come, in sostanza,
stanno le cose a Mauritius, e per fare ciò ha deciso di utilizzare
la lente di ingrandimento fornita da un evento ippico in apparenza un
po’ anomalo su un’isola del genere, e che invece è assolutamente
radicato nella cultura del luogo. Le eventuali connessioni con il
passato al pari di quelle con il presente non fanno scattare la
celeberrima scintilla, il film procede nel proprio solco dall’inizio
alla fine senza riservare particolari sorprese, né negative né
positive. Considerando che si tratta di un debutto quanto asserito
dal sottoscritto va ben ben filtrato, più che interessante lo
definirei curioso per l’argomento affrontato perché ci mostra un
posto famoso per noi occidentali soltanto in ambito vacanziero, resta
che dalla mia posizione di appassionato cinefilo speravo che Toi
avesse già un tocco distintivo maggiormente marcato.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-20563364678893967662023-10-28T00:00:00.008+02:002023-10-28T00:00:00.138+02:00Notre-Dame-des-Monts<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj6fLufjFR2okzSbvfHDtl5UQuV_8FT_swhIActAKMlafA20tYdR9cF47yZbHgBYkZjMUUAXPFyQ6IzH2xI5QJKytd7saW1n2GrgHcyMX8nD1FYxN-2QcKSmOqCOfmMPlHFJlM5uQHeq9WhwFjARrKxVKglFXzuNCHQHJg348j_dOy2RqbMC28rCefmzQM/s1920/notre%20dames.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1080" data-original-width="1920" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj6fLufjFR2okzSbvfHDtl5UQuV_8FT_swhIActAKMlafA20tYdR9cF47yZbHgBYkZjMUUAXPFyQ6IzH2xI5QJKytd7saW1n2GrgHcyMX8nD1FYxN-2QcKSmOqCOfmMPlHFJlM5uQHeq9WhwFjARrKxVKglFXzuNCHQHJg348j_dOy2RqbMC28rCefmzQM/w254-h180/notre%20dames.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">L’immagine
di un uomo anziano sdraiato su una roccia apre </span><i style="text-align: left;">Notre-Dame-des-Monts</i><span style="text-align: left;">
(2016), di quest’uomo e del luogo in cui si trova (sebbene ad una
rapida ricerca è agevole localizzare l’omonima zona nel Québec)
non sappiamo nulla. Una tale assenza di coordinate, geografiche ma
anche narrative, è alla base di quel cinema che mi permetto di
definire rurale e che conosciamo piuttosto bene, illustri registi
hanno operato in siffatta direzione per levare il superfluo e
lasciare la nuda radice, o la parvenza di essa, di fronte alla mdp.
Anche il canadese Martin Rodolphe Villeneuve nel suo piccolo continua
la tradizione contemplativa affidandosi alla carica primigenia
contenuta in un ambiente bucolico, per cui, nonostante sia
incontrovertibile che non abbiamo informazioni certe su chi sia il
signore sullo schermo, che ci faccia lì o perché sia costretto a
dormire in un fienile abbandonato, la cornice immortalata dal
filmmaker ed il metodo di trasmissione adottato, fanno in modo che
comunque si crei una storia anche se una storia, di fatto, non c’è.
Certo, ci sono esempi nell’ambito appena descritto che hanno una
caratura infinitamente più autorevole, le manifestazione autoriali
di un Serra, di un Alonso o di un Dumont quando era ancora un regista
intransigente, sono su un altro pianeta rispetto a Villeneuve,
diciamo che qui qualcosa si subodora, c’è del buono, c’è della
materia prima ben lavorata.</span></div>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">A proposito
del caro ex professore di filosofia nato a Bailleul, in
</span><i style="text-align: left;">Notre-dame-Des-Monts</i><span style="text-align: left;"> la suggestione che tocca quelle corde non
subito visibili è di stampo religioso. Un’eco neanche troppo
celata si diffonde nel cortometraggio con la figura centrale e
frontale di una statuetta raffigurante la Madonna. Facile pensare a
delle possibilità, del tipo che il capannone possa rappresentare un
guscio protettivo che dà una notte di pace e conforto al vagabondo,
la scena in cui viene sfilato via il chiodo dal petto della scultura
ha una sua cifra evocativa, il sottoscritto ci ha visto un
avvicinamento sì fisico (il senzatetto la tiene con sé nel suo
giaciglio durante il sonno), ma soprattutto spirituale ad uno stato
superiore, una richiesta di aiuto e di accettazione verso un’entità
in miniatura sporca e dimenticata ma pur sempre divina. Alla fine ciò
che emerge è il ritratto di una solitudine che può anche essere
astratta, universale, che esula dal particolare per farsi generale:
tutti noi, nella nostra vita, abbiamo bisogno di un rifugio dove
racimolare briciole di speranza. Io, ad esempio, dal 2007 le cerco e
le trovo in questo blog.</span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEived8Gyd47cUR15F9zInYbU12GTJ7hRDD2c1NCGutv5QU1PDIlTuhluftrOcxlTY0Kc2FSO0t1WbjHzCAwqDLg5ZM3IXEbLnxuTywMZ1rs2Uz4txw8tG89Grh8WG4roeQ9WDoP19LYsYrPWF9REOR-dO16IdcSBnKo69ANSAc4XzY6dsJBZRSJ2JATyzQ/s1920/NOTRE-DAME-DES-MONTS%20by%20Martin%20Rodolphe%20Villeneuve.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1080" data-original-width="1920" height="173" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEived8Gyd47cUR15F9zInYbU12GTJ7hRDD2c1NCGutv5QU1PDIlTuhluftrOcxlTY0Kc2FSO0t1WbjHzCAwqDLg5ZM3IXEbLnxuTywMZ1rs2Uz4txw8tG89Grh8WG4roeQ9WDoP19LYsYrPWF9REOR-dO16IdcSBnKo69ANSAc4XzY6dsJBZRSJ2JATyzQ/w320-h175/NOTRE-DAME-DES-MONTS%20by%20Martin%20Rodolphe%20Villeneuve.jpg" width="320" /></a></div><p></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-62391519096098557532023-10-27T00:00:00.014+02:002023-10-27T00:13:14.833+02:00Je flotterai sans envie<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjGGANhLPnqyqU4mzzUiZsKh1t323_SGvQe-rC-cRaWstSA3FVwKH20RW-tKEQ50bJ2ivsk5j8v2DJt389ArO5JQWqGwlBgcBSXKLmD5TmizsL0brhcGP9DN1MheFsxP3M-CcJN-G4Pse12C_KCEB9UxWif3ddwu08CJ2NZPiQ0KY-pFh4LA-ZNg-1Lz9M/s746/Je%20flotterai%20sans%20envie.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="746" data-original-width="500" height="325" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjGGANhLPnqyqU4mzzUiZsKh1t323_SGvQe-rC-cRaWstSA3FVwKH20RW-tKEQ50bJ2ivsk5j8v2DJt389ArO5JQWqGwlBgcBSXKLmD5TmizsL0brhcGP9DN1MheFsxP3M-CcJN-G4Pse12C_KCEB9UxWif3ddwu08CJ2NZPiQ0KY-pFh4LA-ZNg-1Lz9M/w217-h320/Je%20flotterai%20sans%20envie.jpg" width="225" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span lang="it-IT" style="text-align: left;">Tappa
conclusiva del progetto tripartito dedicato al giovane Arno, </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>Je
flotterai sans envie</i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">
riporta come data di uscita il 2008 ma a conti fatti potrebbe stare
benissimo prima di </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2023/10/compilation-12-instants-damour-non.html">Compilation,12 instants d’amour non partagé</a></i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">
(2007) e </span><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>Vosges</i></span><span lang="it-IT" style="text-align: left;">
(2006, il più breve e sperimentale del trio). Questo perché qui si
consuma l’effettivo distacco tra </span><span style="text-align: left;">Frank
Beauvais e la sua imberbe fiamma, anzi, più che distacco quello di
Arno è un progressivo sottrarsi, sfuggire, scappare via, e in un
tale movimento di fuga anche il cinema ne esce con le ossa rotte. L’idea del regista francese era infatti di coinvolgere il ragazzo in un
non ben specificato percorso, tuttavia, pur provandoci a più
riprese, il film rimane nell’area delle velleità e a Beauvais non
resta che constatare di come anche la sua relazione, esattamente come
l’opera che ha in mente, è destinata al fallimento. Il parallelo
tra la liaison impossibile e il manufatto continuamente interrotto è
piuttosto interessante per modi, tempi ed anche a conclusioni a cui
si giunge, perché comunque, a prescindere da tutto, qualcosa viene a
galla, ovvero </span><i style="text-align: left;">I’ll Be Floating...</i><span style="text-align: left;">,
il mediometraggio in oggetto, così come anche del rapporto tra i
due, seppur reciso e addirittura rifiutato da Arno, permane della
brace che non riesce a spegnersi completamente.</span></div>
<p align="JUSTIFY" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="font-style: normal; text-align: left;">Mi
ripeterò ma queste produzioni giovanili di Beauvais (e anche quella
più recente: </span><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2023/09/just-dont-think-ill-scream.html"><span lang="it-IT" style="text-align: left;"><i>Just Don</i></span><span style="text-align: left;">’</span><i style="text-align: left;">t Think I</i><span style="text-align: left;">’</span><i style="text-align: left;">ll Scream</i></a><span style="text-align: left;">,
2019) mi ricordano molto l’approccio di Vincent Dieutre, in
aggiunta ci metterei anche un po’ di João Pedro Rodrigues (forse
sono influenzato dalla location portoghese) per la capacità di
ricamare sulla realtà nonostante l’impianto generale risulti
ancora leggermente grezzo. L’aspetto da videodiario che emerge
accusa i quasi tre lustri sul groppone, qualche scelta tecnica
inoltre appare un filo datata (mi riferisco per esempio al fatto di
accelerare alcune sequenze) però credo sussista una coerenza tra le
immagini ed il corrispettivo narrativo costituito soltanto da
dialoghi fuori campo tra i due protagonisti, cioè c’è un legame
tra l’estetica ed il flusso di parole che arriva alle nostre
orecchie, e non tanto in termini didascalici quanto nei sentimenti
che vengono espressi. Peccato che gli ultimi dieci minuti siano
incentrati su un monologo di Arno sull’amore che non mi ha
convinto in pieno, povero Frank poi friendzonato da un pischello ma
le sue competenze professionali rimangono valide, Beauvais è per me
un valido autore che va approfondito.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5376171091548170267.post-37851660381486399112023-10-26T00:00:00.008+02:002023-10-26T00:08:03.170+02:00Red Moon Tide<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgIyy0lGR-feBjfcI7XBiCezDTtVvbHv977CHiQE8OUaYcnH7EuZvqsUTFe8IRq-GDkkdJPFNjp6jVtrBPhmCQKOjWE8eqAEY3NQYacr6umkB9Uq7yV7TKRQRxxTcaJb7LAkW4YRH-AUkcFPxMLYU7OCU9FGmVnYtm5A1fVQn9PQSQqW-FvL4TG9K32EM0/s593/red%20moon%20tide.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="593" data-original-width="420" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgIyy0lGR-feBjfcI7XBiCezDTtVvbHv977CHiQE8OUaYcnH7EuZvqsUTFe8IRq-GDkkdJPFNjp6jVtrBPhmCQKOjWE8eqAEY3NQYacr6umkB9Uq7yV7TKRQRxxTcaJb7LAkW4YRH-AUkcFPxMLYU7OCU9FGmVnYtm5A1fVQn9PQSQqW-FvL4TG9K32EM0/w229-h320/red%20moon%20tide.jpg" width="229" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Era molto
atteso e non ha deluso, il secondo lungometraggio di Lois Patiño
dopo </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2020/12/costa-da-morte.html">Costa da Morte</a></i><span style="text-align: left;"> (2013) è una ricerca su come possa
esistere un raccordo tra intransigenza estetica e filigrana
narrativa, e al contempo farsi scenario di un’ulteriore ricerca,
’sta volta interna al cinema del galiziano, in un atto di
esplorazione e – forse – trasformazione. Parto da qui: con </span><i style="text-align: left;">Lúa
vermella</i><span style="text-align: left;"> (2020) il regista compie un movimento piuttosto
inaspettato: si avvicina, proprio fisicamente, agli esseri umani. Sì,
già in </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2023/07/noite-sem-distancia.html">Noite Sem Distância</a></i><span style="text-align: left;">
(2015) erano percepibili delle avvisaglie, però niente di
paragonabile a quanto viene mostrato</span><span style="text-align: left;"> in questo film dove gli
abitanti di un villaggio costiero vengono ripresi da breve distanza,
addirittura con dei primi piani. Si tratta, comunque, di una
constatazione superficiale, le persone sono più vicine a noi
spettatori eppure, per paradosso, nella filmografia di Patiño non
sono mai state così lontane, sono assenti, vivono in uno stato
catatonico dove i loro pensieri, aggiunti a mo’ di commento off,
rimandano ad un folklore nebbioso e indefinito. Ecco dunque che
subentra la componente “storia”, uno scheletro, una mappa (ce n’è
una che apre l’opera) che sprofonda nel mito, nelle credenze
popolari, e mi sento di dire che il filmmaker è in grado di trovarsi
veramente a suo agio in un contesto del genere, ciò che tira fuori
da un tale brodo di superstizioni e suggestioni ha tutta una sua
lodevole energia che pesca da esemplari magari minori (per il
flirtare con il sibillino mi ha ricordato </span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2020/07/sin-dios-ni-santa-maria.html">Sin Dios ni Santa María</a>,
</i><span style="text-align: left;">2015) fino a riprendere firme prestigiose del panorama autoriale
(c’è del Dumont horssataniano nella resurrezione di Rubio). Sia
chiaro: Patiño ha già una sua linea personale, le citazioni di
altri colleghi non ne fanno di certo un epigono, anzi mi spingo a
dire che se manterrà invariata la qualità dei suoi lavori futuri
sarà lui a fare didattica, a fare scuola.</span></div>
<p align="JUSTIFY" lang="it-IT" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="text-align: left;">Ribadendo la
mortificazione che si procura alle produzioni dello spagnolo nel
vederle su piccolo schermo invece che su quello grande, con </span><i style="text-align: left;">Red
Moon Tide </i><span style="text-align: left;">si riesce comunque a
godere, e tanto, del pregevole impianto formale elaborato per
l’occasione. Che Lois fosse bravo nel comparto naturalistico lo si
sapeva, chiaro, fino ad oggi eravamo consci di non avere a che fare con un
documentarista classico, ma lo step compiuto per </span><i style="text-align: left;">Lúa
vermella </i><span style="text-align: left;">è davvero notevole e
regala scorci e accostamenti da applausi. La forza di un oggetto che
non si può negare sia abbastanza ostico, almeno per chi non ha vasta
esperienza cinefila nel settore, risiede sicuramente nell’alto
tasso di fascinazione che è capace di imprimere, sarà banale
sottolinearlo ma la potenza delle immagini, seppur calate in una
confezione sedata e quindi contemplativa, esplode sullo schermo in
continue detonazioni cristalline, roba che può dialogare senza paura
con l’arte visuale di un Matthew Barney meno ossessionato dal
simbolo. E in subordine, ma mica tanto perché alla fin fine il
nocciolo atomico che arde è proprio qua, si </span><i style="text-align: left;">sente</i><span style="text-align: left;">
(corsivo d’obbligo, siamo ben al di là della razionalità, conta
il sentire, e basta, il resto è breviario netflixiano) che le
suddette immagini non sono un collage fine a se stesso assemblato per
gonfiare l’ego del suo creatore, no, c’è un dialogo importante
tra l’uomo e la natura (la diga vs. il mare), c’è un ritmo
(ampio merito anche al sonoro), c’è una progressione (il viaggio
delle tre streghe), c’è una catarsi (l’impeto acqueo virato in
rosso). Racconto per immagini è una frase fatta? Sì, allora
invertiamo: immagini (sublimi) di un racconto. </span><span style="text-align: left;">Gli
unici appunti che mi sento di avanzare sono giusto dei dettagli: 1)
non avrei scelto di “freezare” gli esseri umani perché
richiamano quelli di Roy Andersson e 2) la scelta dei lenzuoli
bianchi per i fantasmi avrebbe il suo impatto se non avessimo visto
</span><i style="text-align: left;"><a href="https://pensieriframmentati.blogspot.com/2011/09/finisterrae.html">Finisterrae</a></i><span style="text-align: left;"> (2010) o
</span><i style="text-align: left;">Storia di un fantasma</i><span style="text-align: left;">
(2017), per il resto inchini a profusione verso Patiño.</span></p>Eraserheadhttp://www.blogger.com/profile/15050269216140730370noreply@blogger.com0