sabato 29 aprile 2017

Adrienn Pál

La visione dell’Ágnes Kocsis di Pál Adrienn (2010) si allaccia in maniera più o meno evidente ad un certo cinema centro-nord europeo che fa capo a gente come Seidl, Hausner, Andersson, Östlund e via dicendo. La staticità, la frontalità, l’inadeguatezza di corpi sgraziati dentro la scena, il sedare le emozioni con anestetici al gusto di bromuro e l’incapsulare i drammi in una sfera opaca, sono tutti elementi rivenibili in questo film presentato a Cannes ’10 dove si aggiudicò il premio FIPRESCI, in aggiunta la regista ungherese nata nel 1971 a Budapest soffia nella propria opera un sottile (pro)fumo di grottesco che sembra provenire da certa recente cinematografia russa e che, per esempio, ha trovato campo fertile anche nel connazionale György Pálfi (prendiamo l’alienante stanza degli EEG come esempio). Orbene, coniugando tali istanze che raggruppano stili e tematiche, abbiamo Adrienn Pàl, film che nel suo campo, quello del cinema narrativo, può ritagliarsi una posizione decorosa perché varie sono le questioni gestite con garbo e intelligenza dalla Kocsis: la prima è quella di aver passato al cinema un altro ritratto di profonda malinconia, nessuna originalità in una ragazza obesa che fatica a trovare un po’ di vicinanza umana, ma i modi sono quelli giusti e nell’atmosfera seriamente autoptica (qui più che mai, tanto che alla morte Le si cambia il pannolino) Piroska-menhir si percepisce realmente come una donna sola in cerca di un’esistenza migliore, e a rinforzare l’impressione ci pensa un fidanzato melomane e puntiglioso che la Kocsis utilizza sardonicamente nelle parentesi domestiche dove nel gelo della casa (spoglia come l’ospedale) si consuma (già da tempo: “sono cinque anni che non ti amo più”) la piccola grande tragedia del distacco.

Legandosi indissolubilmente alla suddetta dimensione solitaria di Piroska, il cuore di Adrienn Pàl trova battito e ritmo in un’indagine particolare, come in un noir addolcito la ricerca dell’amica scomparsa diventa qualcosa di più grande. La Kocsis delinea la forma ricalcando i tratti di quei thriller dove la ricerca di un colpevole diventa ricerca di se stessi, e allora la traiettoria si fa intima, recondita, l’infermiera sulle tracce del suo alter ego Adrienn, il fantasma della bambina che era. Giocando sull’instabilità degli indizi raccolti dalla protagonista, la regista costruisce una buffa investigazione dell’anima dove come è giusto che sia il mero oggetto del desiderio resta una chimera, e pur avendo una sottile ruggine nelle modalità con cui l’improbabile detective porta avanti l’inchiesta (certe situazioni “casualmente” favorevoli, come quando si reca nel villaggio e “guarda caso” si prende cura dell’ex maestra morente il cui figlio, “fortuitamente”, è l’anello di congiunzione con l’amica perduta), l’opera nel suo insieme veicola un senso piuttosto pieno dotato di una buona coerenza estetico-argomentativa. La conclusione non didascalica suggerisce forse una riappacificazione personale (il ballo con la bimba al compleanno, il ballo con Adrienn, il ballo con sé) segnata dall’inevitabilità della vita incanalata ormai in una routine irreversibile (la pulsazione sul monitor che cadenza il futuro).

mercoledì 26 aprile 2017

Ma loute

Osserviamo il poster: all’interno dell’ovale si nota una variegata umanità dalla quale emerge almeno un tratto comune: ognuno dei soggetti ivi riportati ha una posa da perfetto imbecille, poi leggiamo sotto al titolo la paternità dell’opera e un pochino di dubbi si materializzano: ma come? È proprio quel Dumont lì? Quello che faceva quei film là e a cui difficilmente si sarebbe pensato di accostare una locandina del genere? Perché comunque le locandine sono importanti nei circuiti di vendita, presentano il prodotto, lo identificano, attraggono, ed è per tale motivo che, ad esempio, le opere sperimentali non hanno bisogno di poster poiché non necessitano di pubblico ma di persone, di esseri umani, ed è sempre per questo che Dumont ha piazzato già nel primo strato di Ma Loute (2016) con cui dobbiamo rapportarci la quintessenza del film stesso, ovvero un prodotto di marcata attorialità, di focus caricaturale, di commedia esacerbata e a volte anche un po’ scema. Scusate le ovvie banalità ma purtroppo nelle righe sottostanti ce ne saranno altre, e nell’ottica esegetica non è un bel segno.

Infatti proseguiamo sulla scorta delle ovvietà: è stato ripetuto fino allo sfinimento che dopo Hors Satan (2011) il regista francese era pronto ad intraprendere altre strade, e così ha fatto: Camille Claudel 1915 (2013) è stato un oggetto fin troppo “normale” per quello che avevamo visto fino a quel momento, P’tit Quinquin (2014) ha introdotto una novità assoluta come la vena comica con risultati alterni ma mi sento di dire più che sufficienti, poi, all’interno di queste due pellicole si possono rintracciare tanti segnali di stile e connessioni varie con il resto della filmografia che sazieranno la curiosità dello spettatore, ma ecco che si arriva a Ma loute il quale, come giustamente riportato dalla recensione di Marco Grosoli (link), non è altro che la somma dei titoli che l’hanno preceduto, e allora ad un impianto poliziesco con tanto di buffa coppia investigativa mutuata da Quinquin, si unisce la medesima epoca rappresentata di Camille Claudel e una non dissimile caratterizzazione estetica tra le diverse classi sociali (se ricordate Binoche-Camille si distingueva fisicamente dalla bruttezza degli altri ospiti del manicomio). Compiendo una tale somma algebrica le perplessità già sorte al solo ammirare del manifesto lievitano, e se partiamo ad analizzare il film attraverso il suo aspetto più singolare, ovvero il suo essere commedia, il sottoscritto non è che sia rimasto così impressionato… anche ad essere buoni e a dire “massì, è un Autore, adesso gli è presa così, d’altronde è libero di fare ciò che più gli garba”, continuo – perché già in P’tit Quinquin avevo avvertito in taluni frangenti una ruggine similare – a non ritenere il cinema di Dumont perfettamente calzante col registro farsesco, forse è la comunque presente ricerca di un’artisticità a non sposarsi bene con la comicità agognata, o forse è Dumont a non riuscire a coniugare le due suddette istanze, non lo so, fatto è che in Ma Loute il carico aumenta perché a tratti si sconfina nello slapstick (le cadute della Bruni Tedeschi e del consorte, le accentature sonore sull’obeso detective) e onestamente è l’ultima cosa che mi sarei aspettato e che avrei voluto in un film di Bruno Dumont.

Ma vabbè, andiamo allo step successivo che potrebbe essere quello della smaccata contrapposizione tra i due ceti sociali sullo schermo. Anche qua non me la sento di lasciarmi andare in elogi smisurati, sì all’inizio è diciamo divertente assistere ad un così netto contrasto tra le due fazioni che si realizza anche e in particolare sul piano visivo (al di là di tutto Dumont resta uno dei migliori scout in circolazione in merito a volti inadatti eppure perfetti per il cinema), ma a lungo andare la diatriba sottaciuta non ha pressoché nulla di essa. A causa di un impianto che tende a ripetersi e in cui in sostanza la narrazione è piuttosto ferma se si esclude il soffio romantico tra il protagonista e la rampolla, la visione che poteva essere politica è piuttosto un ritrattino un po’ grottesco un po’ tragico che incide mica tanto, Dumont senza voler approfondire la butta sul ridicolo creando delle figure paurosamente gracili sicché i nobili sono degli idioti incestuosi mentre i poveracci sono dei cannibali da famiglia horror americana. Trovo difficile riscontrare un terreno davvero fertile nell’antitesi tra le due realtà, mi chiedo cosa volesse dirci Dumont con la mise-en-scène di uno scalino sociale come quello che vediamo e non trovo una risposta soddisfacente, nemmeno nella disamina di Grosoli sopraccitata, se qualcuno ha idee in proposito parli ora o taccia per sempre.

E giungiamo all’ultimo punto che mi preme affrontare e che risulta essere anche il più dolente perché adesso vorrei parlare di religione, e mi piacerebbe farlo nel modo in cui Dumont sapeva stimolare me, e molti altri suoi estimatori, poiché in passato l’ex professore di filosofia riusciva a trattare questioni universali arrivando ad una trascendenza cinematografica che ti scuoteva dentro, e l’argomentazione era così efficace perché non c’erano intensificazioni di sorta e tutto rientrava in quel fluire umbratile e sfavillante del sentire una visione piuttosto che vederla, ma qui è un altro discorso in quanto in Ma loute ciò che orbita attorno alla religiosità è proprio macchiettistico e si riduce a qualche sproloquio della Binoche e ad una piccola processione sulla spiaggia, non c’è, quindi, alcun alone mistico qui, se un tempo il Miracolo di Hors Satan toglieva il respiro proprio perché il nostro ossigeno per osmosi filmica andava a riempire i polmoni della ragazza resuscitante, il miracolo di questo film, oltre a non essere una novità assoluta (ricordate i piedi di Pharaon ne L’umanità [1999]?), è, probabilmente con piena consapevolezza, una barzelletta, una boutade, una cialtronata che chiude le due ore di proiezione perché in qualche modo si doveva pur concludere.

Adesso spero vivamente che qualcuno mi smentisca e che mi faccia comprendere che in realtà non ci ho capito un cazzo di niente e che Dumont resta sempre un signor Regista.

sabato 22 aprile 2017

Fit

Fit (1994) è probabilmente il risultato conclusivo del percorso accademico compiuto da Athina Rachel Tsangari negli Stati Uniti, infatti una scritta posta alla fine del corto asserisce che le riprese sono state effettuate ad Austin, proprio dove era ubicata l’università che una ventottenne Tsangari stava frequentando. Così ha iniziato la principale fautrice del rinnovamento greco in ambito cinematografico: con un lavoro che ha lontane reminiscenze dereniane, che evoca una certa impertinenza giovanile, che si avvale di interventi significativi in fase di post-produzione: qui c’è un punto interessante: al tempo la Tsangari pareva molto più interessata ad operare nella surrealtà in quanto tale, ovvero negli otto minuti di Fit il reale non esiste, si tratta di una finestra sghemba sull’irrazionale, un compito di diligente anarchia portato a termine da una studentessa che esplora la capienza del mezzo cinema: lacerazioni ed incollamenti, accelerazioni e distorsioni, la Tsangari come una piccola alchimista nella camera oscura.

Lungi da me lanciarmi in paragoni assurdi con Attenberg (2010), mi limito solo a pensare il percorso di questa autrice greca, e, tralasciando The Slow Business of Going (2000) che non sono ancora riuscito a visionare e in cui recitano i due attori di Fit, è interessante notare il cambio di prospettiva che ovviamente non riguarda soltanto Attenberg in sé ma tutto il movimento che si è generato nel giro da lì a poco. La differenza basilare è che un film come Fit mira alla completa astrazione, compiaciuto nei propri ghirigori si sgancia da qualsivoglia interpretazione, Dogtooth (2009) et similia viceversa necessitano inderogabilmente di una decodificazione poiché sono metafore ambulanti della nostra società. È qui la differenza tra un cinema se vogliamo sperimentale ed uno narrativo, il primo punta l’obiettivo dentro di sé, l’altro verso lo spettatore. Dove debba dirigersi il nostro sguardo sta a noi capirlo, il sottoscritto dopo anni di visioni un’idea se l’è fatta.

mercoledì 19 aprile 2017

Aloys

Giusto che il protagonista, un memorabile Georg Friedrich habitué dei set hanekiani, dia il titolo al film: Aloys è il punto centrale della storia che però non è un punto fermo nonostante le sue premesse così ristagnanti nella mestizia, c’è un’evoluzione nella scrittura ruolistica del personaggio così come si registra una mutazione nel campo categoriale proprio dell’opera. Diciamo quindi che il nesso tra il soggetto principale e la pellicola stessa segue questa tendenza trasformativa, infatti l’inizio pone la questione su una traiettoria da hard boiled in chiave austriaca: toni stinti, freddezza diffusa, geometrie asettiche, e di conseguenza anche le informazioni fornite su Aloys lo tratteggiano come uno dei tanti uomini soli che il cinema occidentale (e non solo) ha raccontato negli anni, niente è eclatante nei vari addendi che fanno la somma di tale solitudine, tuttavia la variante elvetica del debuttante Tobias Nölle non urta e un po’ di fluidi empatici oltrepassano lo schermo; poi Aloys (2016) cambia e con lui anche Aloys: Nölle mette da parte la possibile inusuale detection dove l’investigatore diventa l’investigato per aprire la sua opera ad un raggio umanista che si concentra esclusivamente sulle persone, le uniche due, e sulla distanza che le separa, da qui in avanti il lungometraggio si muove in una zona diversa da quanto aveva fatto intuire per penetrare in altre aree cinematografiche (tipo quelle esteuropee di Pálfi e Sigarev) dove il vedere, il nostro vedere, viene scombussolato dal fiorire di piani ulteriori a quello grigio e piatto dell’infelicità, e ad una rinascita filmica corrisponde anche una resurrezione emotiva del povero detective.

Ci sono dei validi momenti perché Aloys è un film di finzione confezionato molto bene in cui il regista e tutto il team produttivo, dal comparto fotografico a quello sonoro, sfoggiano una professionalità che non fa di certo pensare ad un esordio, sul fronte sceneggiaturiale è forse opinabile il succo della vicenda che non può fregiarsi di una significazione innovativa, di autori che hanno tentato di riavvicinare il cuore degli uomini soli ce ne sono così tanti che il tema è ormai inflazionato, come sempre però a soccorso del coraggioso di turno ecco che i metodi utilizzati nella trattazione dell’argomento riescono a mitigare il tasso d’abuso, ed è esattamente grazie all’estro impiegato da Nölle che qualcuno potrà ricordare maggiormente la portata estetica rispetto a quella semantica, e quei buoni momenti sopraccitati si riconducono all’intrigante idea di strutturare il rapporto tra Aloys e Vera via telefono e di dare forma per immagini all’idealizzazzione sentimentale tra un uomo e una donna che si amano senza conoscersi. La progressione di un legame alquanto strambo su cui aleggia sempre il fantasma della malinconia (il papà) ha una discreta forza ostensiva che per mezzo di lacerazioni narrative, ribaltamenti spaziali ed evocazioni mentali trasporta il tutto ad un crescendo conclusivo che si guarda con partecipazione, ed anche se per sentirci leggeri e inarrivabili dobbiamo affrontare ben altro cinema, Aloys e il suo mondo uggioso recapitano con stile una morale allo spettatore: solo quel lucore, quel barlume, quello scintillio situato nell’altro può farci sentire davvero vivi.

sabato 15 aprile 2017

Richard

E venne la notte in cui le case si staccarono dalle loro fondamenta per fluttuare nel cielo stellato con i cavi e le tubature penzolanti nell’atmosfera come i tentacoli trasparenti delle meduse, sotto, in picchiata, Jahzara, Shakina o Zwena si incamminava su per la salita in mattoni neri, lavici, dove ai lati il mondo era svanito in tenebrosi pannelli di buio dai quali provenivano stridii e fruscii provocati dalle gigantesche torri di scarafaggi che con le loro corazze oleose si sfioravano per cigolare tutti insieme, folli e brulicanti, e lei era sola, come sempre, mentre sua nonna, migliaia di chilometri più a sud, come sempre, si era appena svegliata e ingoiata una manciata di riso freddo e appiccicoso avanzato dalla sera prima aveva preso il tamburo per sedersi fuori dalla capanna, un motorino scoppiato, un cane trizampe, e via a percuotere la superficie dura e laida in modo che i battiti sulla membrana fossero gli stessi battiti cardiaci della nipote lontana: TU-TUMP/TU-TUMP, Aisha, Najya o Huma proseguiva a piccoli passi con le mani giunte sulla pancia sferica, tesa fino all’inverosimile, e lucida: era nuda: non era più niente. Fuochisti, Blatte marroni, Blatte americane, Blatte fischianti, Scarabei, Ontofagi, Cetonie dorate, Trichi fasciati, Cervi volanti. Era una ragazzina con un tesoro da donna nella pancia, forse un grosso insetto coprofago, forse una creatura celestiale, forse chiuse gli occhi e continuò a salire.

TU-TUMP/TU-TUMP

Si erano conosciuti in un Cpsa di Lampedusa, di Ragusa o di Agrigento, lui le aveva offerto un chewingum lei non sapeva nemmeno cosa fosse, non era bello, pensava, però era bello, e la sera stessa si ritrovarono soli nel magazzino del Centro che era diventato il centro del loro piccolo e derelitto universo: si avvicinarono e scoprirono di non avere un buon sapore perché entrambi: bevvero dell’acqua putrida alla periferia di Tripoli, dormirono in una specie di stalla al confine con la Serbia o mangiarono del pollo avariato ai bordi di una ferrovia vicino a Nairobi, ma non importava, le loro lingue si contorcevano già, rumori e ricordi lontani si mischiavano ovattandosi al di là della bolla impenetrabile che racchiude due persone che stanno per scopare (hal habeen laba nin oo guriga soo galeen oo aabbahay gowracay indhahayga hortooda, ډینس تل زما په زړه وي o li gundê li ser agir bû û heta niha jî gewriya sazîyên şewitandin hîs), non si chiesero neanche il nome perché, di nuovo, non importava, e mentre lui stringeva il suo seno come se stesse strizzando un pugno di farina, la nonna lontana cominciava la sua musica ancestrale che poteva viaggiare nello spazio, un flusso ritmico attraversò in cielo il Nordafrica, il Medio Oriente o i Balcani per tuffarsi nel cuore della ragazza che percepiva l’invasione maschile nel suo corpo, le dita, gli aliti, i morsi, gli odori, i sessi a contatto, non c’era nient’altro, in quel momento, che non fossero se stessi impegnati a ricercarsi egoisticamente nell’altro (poiché, così come secondo il mandala cinese dello yin e dello yang le tenebre si trovano al centro della luce, allo stesso modo per parte sua il cervello dell’uomo contiene un utero, una caverna, una pianta carnivora le cui profondità sono carnose e fumanti, e per tutta la vita cerca di accedervi, di fare l’amore con se stesso per incontrare se stesso al di là del sesso e del destino, nel puro regno dal quale tutti siamo venuti [1]). Quando finirono lei rimase stesa sulla panchetta da spogliatoio immobile, esausta, e quella goccia di sperma che le colava giù dall’interno coscia divenne la lacrima che rigava la guancia rugosa della nonna. Il giorno dopo lui fu trasferito in un altro Centro e non si rividero mai più.

TU-TUMP/TU-TUMP

Adesso era finalmente arrivata in cima, il grembo era lievitato e gli spasimi che avvertiva la obbligarono a stendersi sul bordo della salita, dietro di lei un vento raggelante le portava il rumore del buio, che era, nello specifico, il laborioso pullulare scarafaggesco, ma Rabab, Klea o Sarah non possedeva nemmeno più la forza di stare in piedi e supina, con le gambe divaricate, lasciò che i dolori lancinanti che le scuotevano l’anima la soffocassero nelle tribolazioni del parto, e così non si accorse nemmeno che delle mani invisibili stavano per accogliere la nascita, le stesse mani che la nonna muoveva incomprensibilmente nell’afa della capanna, e la ragazza urlò: dentro di sé avvertì un crampo ammutolente, una contrazione di ogni più piccola cellula nervosa, e totalmente smarrita in un cerchio di fitte e insetti minacciosi, avvertì appena che un liquido caldo iniziava a bagnarle gli adduttori e che ad ogni spinta, anche involontaria, ad ogni respiro, qualcosa all’interno di lei premeva con una forza mai provata prima e contemporaneamente sentiva che non avrebbe potuto fare niente: che ora, in un secondo che custodisce l’eternità, un piccolo cranio spelacchiato le dilatava l’orifizio vaginale, e lei si dissolveva nella solitudine materna di ogni gestazione mammifera e la nonna si accucciava per terra accarezzando una fronte immaginaria cadenzando mentalmente il suono del Grande Tamburo della Vita, e ad ogni TU-TUMP/TU-TUMP un centimetro della piccola testa insanguinata veniva alla luce, e piano piano il corpicino violaceo fu espulso, sputato, scagliato fuori: eccola lì, una polpetta umida di carne e ossicine che la ragazza, la piccola donna, si ritrovò a cullare tra le braccia, e madre e figlio piangevano all’unisono insieme alla povera nonna sfiancata dal travaglio a distanza, era paura e felicità, smarrimento e preoccupazione, ed anche se il neonato non poteva ancora abbracciare la mamma, lei si sentì protetta e avvolta da un tepore che la fece sprofondare in un sonno dolce; al risveglio un’enorme ala piumata li cingeva entrambi e l’assedio dell’oscurità lasciava filtrare il chiarore delle albe estive ed ognuno degli scarafaggi che prima si accapigliava freneticamente alle loro spalle adesso si era trasformato in un bellissimo angelo. Jeliel, Sitael, Aladiah, Hariel, Melahel, Omael, Aniel, Mebahiah, Mitzrael, Umabel, Rochel. Allora la Madre alzò la testa e vide che le case stavano ritornando alle proprie fondamenta sospinte dal fiato degli angeli che soavi danzavano nell’aria, e così, stringendo ancora più a sé il piccolo, si rivolse all’essere vicino a lei ma non riuscì a dire nulla perché il volto era un sole che l’occhio umano non poteva guardare, fu dunque Esso che, con una voce contenente tutte le voci della Terra, chiese: “come lo chiamerai?”
E lei rispose: “Richard”.

TU-TUMP/TU-TUMP/

TU-TUMP/ TU-TUMP
______________
[1] Mircea Cărtărescu, Abbacinante. L’ala sinistra; Voland 2008)

giovedì 13 aprile 2017

Sacro GRA

È Below Sea Level (2008) a portarci direttamente dentro Sacro GRA (2013), e confrontando i due lavori possiamo rintracciare somiglianze e correlate differenze. Nelle prime vi rientra un approccio similare che è quello di portare il documentario su un piano leggermente più finzionale, come a cercare le eventuali finanche possibili finestre di fiction che si aprono nella realtà e in cui Rosi si incunea per operare sottotraccia modellando le creature che popolano questi mondi al confine. Tale ibridazione documentaristica genera una forma narrativa che il cinema italiano ha impiegato spesso negli ultimi tempi rivelandosi una delle poche strade, se non l’unica, capace di sfornare prodotti perlomeno accettabili. Appurata la sovrapponibilità dell’impianto concettuale, se continuiamo a comparare il film del 2008 con il lavoro successivo penso sia condivisibile marcare uno scarto in favore di quello ambientato negli Stati Uniti. È forse una questione che va a collocarsi nell’annosa faccenda della soggettività, chi scrive è rimasto decisamente più colpito/affascinato dai ritratti dei senzatetto americani piuttosto che dalla variegata umanità di Sacro GRA perché nella pellicola romana è come se quella purezza, quella verginità di sguardo (già intaccata in Below Sea Level ma riacciuffata successivamente dalla frontalità del reale senza artifici de El Sicario, Room 164, 2010) sfibrasse e venisse sostituita con una veduta farlocca, impostata, furba e patinata da un’estetizzazione improducente.

Generalizzando, la coralità costruita da Rosi ha poco appeal, questa carrellata di borgatari usciti da una penna simile (ma decisamente più edulcorata) a quella di Walter Siti è palese che non abbia nulla di interessante da esprimere poiché è la loro stessa vita periferica a non essere interessante, ma il colpevole principale è Rosi stesso che invece di proporre un esemplare di cinema spaccia un cadavere avvolto in un sudario finto-innovativo, difatti l’impostazione teorica di Sacro GRA avrà anche potuto ammaliare la giuria di Venezia ’13 che probabilmente aveva visto una risposta d’essai a La grande bellezza (2013), e taccio sullo scontro politico-produttivo che si cela dietro (Medusa vs. Rai Cinema), tuttavia basta un occhio appena appena conscio della realtà cinematografica europea per sapere che film del genere venivano girati già vent’anni prima da gente come Ulrich Seidl (vedi Animal Love, 1996). Nell’aria di plastica che spira in Sacro GRA sono incapace di ritrovarmi, da una visione così bidimensionale impegnata più a specchiarsi che a rispecchiare davvero la condizione esistenziale sul Grande Raccordo Anulare e che non aggiunge nulla al discorso sul cinema contemporaneo, non si è nemmeno sfiorati, tanto che l’indifferenza è il sentimento che alla fine prevale.

lunedì 10 aprile 2017

Cántico das criaturas

Potrebbe essere esattamente qui, come d’altronde potrebbe essere nell’ovunque altrove, la meta che noi infaticabili visionatori cerchiamo con la bramosia di chi non sa accontentarsi di quello che i nostri “amici” vedono credendo chissacché, non è e non può essere una sosta lunga ed appagante quella di Cántico das criaturas (2006) perché il Gomes di questo corto, reduce dall’esordio nel lungo con A Cara que Mereces (2004), gioca a nascondersi, avanza sotto la traccia para-sperimentale, applica la dimensione ludica al mezzo cinema in un’operazione che caratterizzerà tutta la sua filmografia: c’è anche una delicata nostalgia, una specie di marchio non visibile, ma percepibile, che ha creato qualcosa di similare ad un immaginario poetico: la malinconia, la filigrana dell’ironia, la leggerezza del sentimento, fanno del cinema gomesiano una gemma dell’attualità artistica, il tutto innervato da un vero studio del mezzo, una ricerca strutturale molto appagante che ha trovato in Tabu (2012) il proprio completamento e che ha riverberi non così tenui anche sul lavoro sotto esame.

Costituito da tre parti profondamente eterogenee, e da subito va evidenziata la riuscita fusione della triade in un flusso misteriosamente coerente, Cántico das criaturas nella porzione d’apertura girata in una finta amatorialità (è sì esteticamente vicina all’8mm ma occhio al lavoro in post-produzione sulla frequenza dei fotogrammi) anticipa col menestrello Paolo Manera, uomo di cinema nostrano, la prima metà di Our Beloved Month of August (2008) dove in entrambe le situazioni si viene a creare una bislacca commistione fra musica e ritratto folcloristico (qua abbiamo il vagare per Assisi e la scopertura della statua), ma nella sezione susseguente tutto cambia: al “filmino casalingo” si sostituisce una rappresentazione in costume di San Francesco che ci trasporta nei territori di de Oliveira, l’agiografia di Gomes è un tuffo nel fittizio (i fondali disegnati, l’intensificazione delle luci) che contrasta e parimenti accarezza il segmento ultra realistico dell’inizio. Il generarsi di questo evidente stridio mi pare che esalti le possibilità pressoché smisurate del cinema e della libertà che può garantire a chi ci lavora dentro, non è affatto cosa da poco: anche se il corto non dura più di venti minuti è grazie all’intraprendenza esplorativa che possiamo goderci un piccolo studio sulle potenzialità della settima arte, ed il piacere non si ferma alla messa in scena poiché nello stralcio conclusivo si ha un’ulteriore riconfigurazione, possibile summa delle precedenti: immagini etologiche, e quindi precipitati di realtà, filtrate, riverniciate, splittate e doppiate da una voce infantile che conduce il film in un inaspettato inno alla vita, e quindi alla morte.

venerdì 7 aprile 2017

Passeri

Il mite Ari si sposta da Reykjavik, dove viveva con la madre, per traslocare nel nord dell’Islanda, dove invece si trova il padre. L’ambientamento non sarà facile.

Quattro anni dopo Volcano (2011) Rúnar Rúnarsson firma il suo secondo lungometraggio, Þrestir, (2015) ed è subito una piccola debacle. Nel menù offerto dall’islandese vi sono portate dal gusto ampiamente già visto, conosciuto, assaporato; va detto che il cinema di questo ragazzotto puntando il mirino sui legami personali e sui soggetti principali di tali intrecci, con il film precedente e gli altri due cortometraggi pre-debutto aveva dato prova di sapersi orientare in modo accettabile nell’arte narrativa, ma con Passeri il passo indietro è manifesto poiché Rúnarsson non riesce a rinvigorire un racconto che si basa su presupposti molto ma molto canonici: l’adolescenza difficile induce a uno sbadiglio, il rapporto col padre a due sbadigli, il ritratto dei coetanei con il bulletto di turno è da narcolessia. Il punto è che l’amalgama dei suddetti ingredienti si traduce in un quadro scialbo punteggiato da situazioni fin troppo prevedibili finanche immotivate, si veda l’improvvisa morte della nonna che non ha particolari ripercussioni sulla storia o la gratuita parentesi erotica con la compagna del padre, una scena davvero ingiustificata. È un po’ sempre il solito discorso, più ci troviamo a guardare un cinema che si affida esclusivamente alla sceneggiatura, più il pericolo di prestare il fianco ad obiezioni logiche si alza, e se le obiezioni sono legittime allora il castello di carte si sfascia. I campi lunghi paesaggistici sono belli, ma fare un film è un’altra faccenda.

Purtroppo per Rúnarsson al sottoscritto non è pesato soltanto il pallore che ammanta l’opera, c’è una questione ulteriore che quasi infastidisce e che non può essere taciuta. Infatti tutto l’intreccio tramico alla fine si risolve in una scena madre che è la copia sputata di quella rintracciabile in Two Birds (2008), c’è lo stesso attore adesso cresciuto (si chiama Atli Oskar Fjalarsson e inspiegabilmente nel suo scarno curriculum c’è una voce che lo vede nella troupe di Interstellar [2014]… mah!), e c’è la stessa identica situazione con Ari suo malgrado voyeur di Lára in botta piena posseduta da due tizi. Si può capire l’autocitazione, si può accettare il fatto che molti registi nella loro carriera abbiano ampliato un proprio cortometraggio trasformandolo in un lungo, tuttavia io non comprendo né accetto perché mi è sembrato di registrare più che altro una preoccupante assenza di idee mascherata dal maldestro tentativo di creare delle premesse ad un lavoro compiuto sette anni prima. Come si può pensare di procedere in avanti proponendo la rimasticatura di un piatto ormai scaduto? E si badi bene che Two Birds non è uno short movie del tutto sconosciuto eh, oltre alla visibilità on line va ricordata la sua presentazione a Cannes ed un peregrinare in giro per il mondo in molti festival dedicati al genere, quindi siamo lontani da un oggetto di nicchia sconosciuto al pubblico, e tutto ciò non può che comportare una forte svalutazione di Þrestir dove oltre all’infelice riproposizione di cui sopra, anche il resto non funziona granché.

martedì 4 aprile 2017

The Death of Louis XIV

Essendo Albert Serra autore snob e dotto, per provare ad analizzare La mort de Louis XIV (2016), opera che necessiterebbe di uno studio ben più approfondito di qualunque striminzito commento, compreso ovviamente questo, il gesto più semplice da fare è quello di voltarsi indietro per cercare un laccio con il film appena precedente: Story of My Death (2013), ecco che al solo accostamento dei due lavori emerge un primo punto di contatto a mio modo di vedere molto forte: è difatti facile notare che ambo i titoli contengono la parola “morte”. Ora, la questione è ragionare su come Serra abbia declinato tale topic funereo attraverso il cinema e al di là del mero dispiegarsi degli eventi che qui si esplicitano nelle ultime agonizzanti ore del Re Sole, la tendenza dell’autore classe ’75 sembra essere quella di avere un po’ abbandonato i suoi processi destoricizzanti in favore di una metaforizzazione della Grande Storia per mezzo di una lente mortuaria. In altre parole, così come i due personaggi principali di Història de la meva mort, Dracula e Casanova, impersonificavano lo iato tra due epoche culturali distinte, illuminismo e romanticismo, ed il soverchiamento dell’una sull’altra, anche la messa in scena delle sofferenze di Luigi quattordicesimo cela uno slancio più ampio dall’eguale portata storico-filosofica, pertanto la morte del Re è intendibile come la rappresentazione dell’impraticabilità dell’assolutismo come forma di governo (pensiero rimarcato anche in questa intervista), ne consegue che lo spettatore deve fare i conti con un cinema che non solo è esteticamente grande perché Serra gira come pochi altri, ma anche concettualmente pregno, cavo di spunti e possibili, intelligenti, riflessioni.

Continuità con la pellicola del 2013, ma discontinuità con le precedenti: se rammentiamo la natura raminga di Honour of the Knights (2006) e Birdsong (2008) ecco che The Death of Louis XIV si distingue per un’impostazione occlusa dalla pomposità di un set fatto solo di interni (a parte il breve prologo), di tendaggi pesanti, di drappi e parrucconi (decisamente caricaturali), di tremule fiammelle, un sistema planetario catacombale che Serra cesella in modo sopraffino e che fa ruotare, come non poteva essere altrimenti, intorno al proprio sole, una stella, e si noti la duplice accessibilità semantica, che porta il nome di Jean-Pierre Léaud, qui alla sua prova attoriale più testamentaria. Atmosfera greve e trionfi di buio, il grottesco che sembra sempre dietro l’angolo senza però mai manifestarsi del tutto (a parte, forse, nell’inaspettata autopsia conclusiva, un atto che quasi ci riporta alla smitizzazione citata sopra: il re viene fatto a pezzi!), la sofferenza di un sovrano in cui comunque si riesce a leggere una nota umana che oserei definire “sincera” (merito del suo interprete e di chi ha saputo cogliere tale sfumatura), la ricostruzione di un sudario settecentesco pucciato in densi contrasti caravaggeschi (pannelli di oscurità e macchie di luce), l’alto livello dei dialoghi adibiti a trasportare il discorso verso altri terreni (perfino scientifici vista l’importanza che si dà alla medicina, e la chiusa misteriosa del medico di corte ce lo conferma) fanno de La mort de Louis XIV ciò che ci si aspettava fosse: un’inevitabile capolavoro.

sabato 1 aprile 2017

Matteus

In questo cortometraggio belga del 2012 si narra la vicenda di un bambino, Mateo, che trasferitosi con la famiglia in un paese di campagna trova nella nuova casa una Bibbia che inizia a leggere con grande attenzione, nel frattanto gli abitanti del luogo iniziano ad avere uno strano atteggiamento nei suoi confronti.

Di materiale da maneggiare per la giovane Leni Huyghe ce n’era non poco e difatti credo sia condivisibile che una sinossi del genere avrebbe potuto essere spalmata tranquillamente su un intero lungometraggio, la susseguente compressione informativa crea una catena di situazioni dal potenziale inesplorato, mi riferisco in particolare all’istanza genitoriale a cui non è dato nemmeno il tempo di accorgersi che il proprio figlioletto ha uno strano seguito e di cui ci è conseguentemente negato un relativo approfondimento, e all’istanza degli autoctoni, possibile quid pluris parzialmente inespresso del film, le cui misteriosi apparizioni finiscono un po’ troppo per risultare dei meri piazzamenti atti ad accaparrarsi l’effetto stupore. Ci sono comunque le attenuanti del caso vostro onore, parliamo di una debuttante all’epoca fresca di master ed è indubbio che in fatto di esordi si sia visto di peggio.

Anzi, mi viene da dire che se il corto non difetta di qualcosa quella è sicuramente la professionalità, l’aria di Matteus è più o meno scevra dalle tossine del principiante e se va mossa una critica, e va mossa, essa riguarda un impianto che ricalca in modo fastidiosamente pedissequo certi modelli cinematografici che qui non avranno mai asilo. La natura da thriller soprannaturale con echi horrorifici non può di certo infiammare il cercatore incallito di visioni altre, né si ha molto da dire su una storia che a mio avviso si rifà spudorata ai capostipiti del cinema-con-bambini-inquietanti, si veda Il villaggio dei dannati (1960) e ovviamente Il presagio (1976) (ecco i modelli di cui sopra). Ci starebbe una difesa che menziona l’”atmosfera”, anche se andrebbe esplicitato che cosa sia questa atmosfera: probabile si tratti del mix tra elementi su cui la regista ha il pieno controllo, e quindi diffusione del sonoro, modulazione delle luci, attuazione del montaggio, bene, la Huyghe è capace, o si è avvalsa di collaboratori che sono capaci, a fondere i suddetti principi con dignità, quello che però chiediamo sempre al buon cinema è di fare un passo oltre il fondo (chiedo venia per la bassa autocitazione), Matteus non scardina, al contrario si fa accomodante nei riguardi di certa settima arte, ed anche le minacciose manifestazioni dei villici, seppur, si è detto, sì e no efficaci (il finale ha un perché: la preghiera), fungono più da fumo negli occhi che sostanza da poter analizzare.