venerdì 30 aprile 2010

Le parole ultime, e non famose

Qui, tra le varie cazzate, scrivevo che non avrei ma più cambiato l’headline di Oldboy. Quel “mai più” è durato sì e no cinque mesi.
Abbiate pazienza, probabilmente sarebbe cambiata comunque, di certo l’incontro con quel tipo ungherese, quello con gli occhi azzurri e la coda, ha cambiato un po’ di cose. Dentro me, e quindi anche nel blog.
Cavolo, adesso non sentite anche voi un struggente suonare di violini e fisarmoniche?

martedì 27 aprile 2010

Addendum


Video che sarebbe dovuto star qua sotto ma vabbè. La traccia si chiama Old e chiude l'album di Mihály Víg uscito nel 2001 intitolato Film music from the films of Béla Tarr.
Ovviamente è presente in Werckmeister harmóniák... e niente, è bellissima.

lunedì 26 aprile 2010

Le armonie di Werckmeister

In un paese indefinito sull’orlo del precipizio giunge dal nulla un misterioso nano detto il Principe insieme ad un enorme container contenente una balena imbalsamata.

Dalle fisarmoniche sfiatate di un assurdo tango ballato col gomito alzato in una locanda ai confini dell’universo, Tarr ci trasporta nuovamente in un altro non-luogo riallacciando il filo col suo Capolavoro Satantango (1994). Siamo ancora in un locale dove uomini derelitti si trascinano a fatica tra tavoli e bicchieri sporchi, entra in scena il giovane János Valuska che atteso dai clienti fa veder loro che cosa sia un’eclissi solare. E dopo che la sua rappresentazione ha fine, parte la prima di quelle che saranno in totale 4 entrate musicali, strepitose emozionanti palpitanti, del fedele Mihály Víg. Ed è da questo piano sequenza iniziale che si può comprendere, o almeno provare a farlo, su quali mondi di idee si affacci questo film, su quali abissi universali getti il suo sguardo penetrante.
Nell’osteria vediamo la solita decadenza tarriana, il solito ammasso di rifiuti umani, ubriaconi li definirà il barista. Quando Valuska profetizza l’oscuramento del sole con le sue descrizioni di terrore e miseria, ecco che parte una musica in antitesi con la materialità che si consuma sullo schermo. Come il musicista tedesco Andréas Werckmeister che considerava la musica al pari dell’armonico movimento degli astri ma che fu “falsificata” proprio dallo stesso tramite il suo sistema in ottave, Tarr suggerisce che non c’è equilibrio negli uomini, non c’è l’armonia delle note fra le persone che come goffi pianeti s’incastrano tra loro. La musica continuerà a suonare anche mentre János cammina nella strada deserta fino a scomparire nel buio. C’è solo lei, gli esseri umani non ce l’hanno fatta.

La seconda entrata musicale avviene con l’ingresso di Valuska nel container. Si ripete il contrasto: fuori gruppetti di uomini minacciosi, dentro l’innocente ragazzo a tu per tu con l’essere mastodontico. È difficile dire cosa sia la balena, ma qualcosa mi invita a credere che il corpo offeso dalle cicatrici e il suo occhio esangue siano i sintomi di ciò che gli uomini fanno e hanno fatto con le loro ingiustizie. La balena è un dio martoriato, la carcassa di ciò in cui si credeva e che è stato tradito per seguire la voce di un nano. I riferimenti all’olocausto non sono poi troppo lontani: una popolazione allo sbando, l’assenza di valori, il sopruso che avanza inesorabile. Gli elementi ci sono tutti, insieme a quella musica meravigliosa che si staglia nettamente sulle bassezze della Storia.

La terza apertura è la più dirompente. Anticipata da una lunga marcia ordinata di uomini che sembrano realmente dei soldati, alla quale seguirà la devastante irruzione nell’ospedale che rappresenta uno dei momenti di cinema più crudi da molti anni a questa parte in cui vi è chiaramente un gigantesco vuoto armonico fatto di calci ai ricoverati, mobili e letti fracassati, ecco che dietro una tenda la mdp svela un vecchio uomo nudo, scheletrico, immobile.
In quell’istante la melodia comincia, altissima, sale nei cerchi concentrici del cielo fino ad accarezzare i pianeti solitari le comete scie dorate fra satelliti instancabili, e il cuore, il nostro cuore si frantuma.
L’immagine dell’anziano nudo e indifeso di fronte al male degli uomini ha un potere talmente annichilente da metter ancora di più in risalto la melodia celestiale in sottofondo. E a concludere magistralmente questa indimenticabile sequenza ci pensa il primo piano spaventato di Valuska che nascosto nell’ombra aveva visto tutto. Anche un sognatore come lui sta per arrendersi.

Il quarto ingresso arriva inesorabilmente alla fine. Quando ormai tutto è stato distrutto, tutto. È distrutto l’entusiasmo di János ridotto ad un automa su una barella, è distrutto il container che proteggeva la balena lasciandola ancora più sola di quel che era nella piazza centrale alla mercé di chiunque. La struggente armonia parte da qui, con l’intellettuale Eszter, convinto detrattore di Werckmeister, che si avvicina pian piano alla solitaria balena in mezzo ai detriti. La guarda nell’occhio spento eppure così compassionevole, colmo di pena per quegli esseri umani che l’hanno strappata dal suo mondo per portarla in un regno di scheletri e macerie. In cui non c’è grazia, non c’è logica, non c’è dolcezza, non c’è musicalità.
Nel momento in cui Eszter esce di scena una nebbia sottile fa scomparire la carcassa dell’animale. L’eclissi su questo (sul nostro?) popolo è giunta, il buio è così arrivato. Non ci sarà lo spiraglio di luce sperato da Valuska, resterà solo la musica nei titoli di coda. Libera da qualunque Werckmeister, e infinitamente sopra di noi.

giovedì 22 aprile 2010

Ashes and Snow

Documentario del 2005 molto sui generis che fa parte di un progetto a lunga gittata comprendente fotografia e letteratura, tutto riunito nel Nomadic Museum, una mostra itinerante che partendo dalla Biennale del 2002 ha toccato svariati punti del globo (New York, Santa Monica, Tokyo, Messico) raggiungendo gli oltre 10 milioni di visitatori.
La mente dietro tutto questo ha un nome: Gregory Colbert, fotografo canadese che fin dal 1992 ha concentrato la sua attività nel progetto Ashes and Snow viaggiando per i quattro continenti, dall’India all’Egitto, dal Kenya all’Antartide, con lo scopo di immortalare le interazioni tra uomini e animali.

Il filmato lungo poco più di un’ora ha una veste che sconfina abbondantemente nella fotografia artistica accompagnata di tanto in tanto da una voce off che racconterebbe di una lettera ad un ipotetico destinatario.
Le immagini sono bellissime, sul serio, si tratta di lunghissimi ralenti che rappresentano uomini e animali in totale armonia con se stessi. La cura del particolare è a livelli altissimi, la luce ambrata disegnatrice di ombre e splendidi riflessi orna le sagome di pachidermi che leggeri si librano nell’acqua come gli esseri umani, ogni bollicina del mare od ogni macchia degli imperturbabili ghepardi è raccontata minuziosamente dall’obiettivo di Colbert.
Ma essendo questo un prodotto pensato più per essere ammirato, da buona matrice espositiva, che per coinvolgere chi guarda, da buona tradizione cinematografica, Ashes and Snow difetta nella sua andatura oltremodo pesante ed anche un po’ ripetitiva perché bene o male ciò che si vede dall’inizio alla fine è un uomo o una donna che danzano contornati da animali di svariate specie. È un po’ poco, nonostante si tratti di immagini di grande valore. Vieppiù che le parole del narratore sembrano messe lì giusto per aggiungere del lirismo laddove, a mio avviso, non ce n’era bisogno.
È pur vero, però, che un’opera del genere dovrebbe essere guardata tassativamente sul grande schermo o su un LCD da mooolti pollici per poter gustare appieno delle sue qualità estetiche, e soprattutto, in questo caso, separarla dalla cornice del Nomadic Museum per incastrarla nello schermetto di un computer è come mortificarla.

P.S.: un elefante che nuota nell’acqua lo si può vedere anche nel superbo The Fall (2006).

lunedì 19 aprile 2010

Che ora è laggiù?

Hsiao-kang, commerciante d’orologi, dopo alcuni tentennamenti vende l’orologio del padre morto ad una ragazza in partenza per Parigi di nome Shiang-chyi.

Storie di distanze.
La Francia è lontana 9818 chilometri da Taiwan. La geografia di Tsai Ming-liang accorcia i meridiani che separano i due continenti tramite lo strumento principe: il suo cinema. La trovata più brillante di tutto il film è quella di aver preso la celeberrima coppia di piccioni con una fava, perché oltre ad omaggiare la Nouvelle Vague con le sequenze de I quattrocento colpi (1959) – a proposito, sembra che Truffaut sia preferito a Resnais dal regista taiwanese –, Tsai crea un flusso che unisce una distanza assiderale tra due pressoché sconosciuti, i quali, però, condividono inconsapevolmente la stessa ordinaria esistenza, anche se lei è a Parigi per allontanarsi dall’isola di origine. È il cinema ad alleviare una malinconia di fondo che attanaglia entrambi, spesso la mdp riprendendo i loro corpi che immobili fissano il vuoto esprime quel mal di vivere che sfocerà nel pianto composto della ragazza. Tuttavia, prima delle sue lacrime amare come l’incontinenza di Hisao (ma 4 anni dopo con Il gusto dell’anguria saranno tempi di siccità), sia lui che lei trovano l’illusione in un rapporto umano sfuggente: quello con una prostituta per l’orologiaio, e un bacio con una giovane honkonghese per la ragazza. La coincidenza di questi eventi unita alla spasmodica necessità di Hisao di annullare oltre allo spazio divisore tramite il cinema, anche il tempo sintonizzando tutti gli orologi col fuso orario francese, ha un che di commozione nostalgica visto che i due non sapranno mai niente l’uno dell’altra.

C’è un’ulteriore storia di distanze che a sua volta ne contiene un’altra.
È il legame tra la madre e il figlio che pur abitando nella stessa casa è come se vivessero su due pianeti differenti, questo perché si innerva prepotentemente nella narrazione il fantasma del padre che, è il caso di dirlo, allontana la mamma da una concezione fisica della vita gettandola in mano a ciarlatani e rendendola schiava delle proprie paranoie. La distanza, ‘sta volta, è ancora più incolmabile perché la madre aspetta invano una visita spirituale nella materialità della sua vita. Contemporaneamente agli atti di bisogno della coppia platonica, pure lei trova l’illusione di diminuire gli infiniti anni luce che la separano dal marito masturbandosi con una cassetta che credo ne contenga le ceneri. È l’immagine più sarcastica della pellicola, dissacrante nel suo senso.

C’è un’ultima distanza. La più importante, la meno pareggiabile: quella tra lo spettatore e il film stesso. Tsai è senza dubbio regista raffinato, basta prendere una qualunque sequenza all’interno della casa con le sue precise angolazioni e azzeccate tonalità di colore, ed è anche consapevole dei propri mezzi perché ha il coraggio (o la boria) di fare un film senza sonoro posticipando più del consueto gli stacchi del montaggio, dando perciò vita a inquadrature “morte”, immobili, irritanti per chi non è avvezzo al cinema d’autore. Nonostante queste doti d’alta nobiltà estetica, Ni na bian ji dian è opera frigida che nella sua forma imperturbabile non suscita emozioni, almeno a me. Non si tratta di contenuto assente, tutt’altro viste le mie brevi elucubrazioni, ma proprio di sano e banale coinvolgimento.
Questo mi pensare, per l’ennesima volta, di quale metro di giudizio sia opportuno usare nel commentare un film. Vale di più un’opera stilisticamente imperfetta ma che ha trasmesso QUEL qualcosa, o un’opera signorile che però non tracima i confini dello schermo per restarsene fossilizzata laggiù?

EDIT DEL 12/11/2010

Sei mesi e mezzo sono passati dalla visione di Che ora è laggiù?. In tutto questo tempo ho avuto la fortuna e il piacere di ammirare l’intera filmografia di Tsai. Come detto per Il gusto dell’anguria l’unico “limite” del regista è quello di aver creato una linea di pensiero talmente consequenziale da non poter essere smembrata, o lo si vede tutto o se no è difficile capirlo a fondo. Va da sé che essendo questo film il primo che vedevo di lui ancora non ero penetrato nel suo universo, e scriverne qualcosa oggi sarebbe molto diverso. Vabbè, da qualche parte dovevo pur partire.

giovedì 15 aprile 2010

Il macellaio

Ve lo dico io qual è la scena più bella del film: quando la Parietti entra nella macelleria di Manojlović e una radio in sottofondo emette le magiche note di T’appartengo. Una roba da pelle d’oca intensificata dallo sguardo ittico dell’Alba nazionale che smarrita fra polli e conigli appesi al soffitto (!) tenta di tenere a bada i suoi bollenti spiriti per ordinare una bella bistecca. Il tutto mentre la verace cassiera osserva sorniona e la voce di Ambra Angiolini scivola tra l’ordinazione e le occhiate trepidanti. In una parola, spettacolo!

I know i know, come sicuramente saprete anche voi Il macellaio (1998) è un fulgido esempio di guano cinematografico che nonostante goda di una reputazione imbarazzante è più famoso di altri film ben più meritevoli di lui. Il perché è facile facile: lei, la protagonista. Alba Parietti. Godendo al tempo di una certa visibilità grazie alla tv ed essendo quindi un volto noto anche e soprattutto negli anni seguenti, ecco che un insofferente al tubo catodico come me medesimo, si va a vedere per pura curiosità cosa combina la soubrette torinese con ‘sto macellaio nerboruto.
In realtà combina ben poco, e quel poco verso la fine.
Prima c’è un’approssimativa disamina della sua situazione coniugale con alcune grane relative ad una adozione. Lo spessore dei personaggi è tale da renderli sagome di cartone guidate dalla modesta mano di Aurelio Grimaldi; la vicenda possiede ovviamente una povertà di fondo che tutto l’ambaradan messo in piedi poteva essere tranquillamente condensato in un corto di cinque minutini. E poi, come letto in altri siti, vi sono reminescenze fantozziane nell’avventura fedifraga: Manojlović come il panettiere Abatantuono, Alina come la Pina. Peccato non aver visto il marito tornare dal suo tour, se no altro che sfilatini negli armadi, grandi salsicce come se piovesse!

Tornando seri (lol). Oltre alla scena con l’Angiolini in sottofondo, ci sono altri momenti tristi che mi pare doveroso menzionare. Così, a random: Alba che spia il macellaio e la cassiera fare all’amore nella cella frigorifera, i pensieri spinti del negoziante che sembra riscuotere parecchio successo con le clienti nonostante le sopracciglia a spazzola rovesciata, il petting fra i due amanti che è una delle scene più goffe mai viste prima e il montaggio finale che alterna l’amplesso viulento dei due al coro che canta alleluia diretto dal marito cornuto.
Nel cast si possono ritrovare alcune superstar delle fiction nostrane come Giulio Base e Caterina Vertova. Presenze, manco a dirlo, inutili.

Ma non ho ancora risposto alla domanda più importante.
Lo faccio ora. Sì, aho, alla fine la Parietti nuda ha un suo perché, e si può passare oltre i due canotti sopra il mento, peccato che si veda sempre di sfuggita. Ah, di cose zozze non ne fa, a meno che non vi eccitiate per un po’ di yogurt sulle dita.
Cult dell’inutile.

lunedì 12 aprile 2010

Madre

Madre protettiva e figlio ritardato vivono la stessa vita condividendo ogni attimo, ogni spazio: anche il letto. Una sera Do-joon rientrando da un bar trova davanti a sé una ragazza che con passo svelto, e indifferente ai suoi alticci richiami, si infila in una casa abbandonata. Il mattino dopo viene trovata morta sul tetto dell’abitazione, e la polizia incolpa l’innocuo figlio. La madre allora si mette alla ricerca della verità per discolparlo.

C’è del marcio in Corea del Sud, decisamente.
Negli ultimi anni la penisola bagnata dal Mar Giallo si è dimostrata terreno fertilissimo in ambito cinematografico. Ogni appassionato della settima arte che sa aprire i propri orizzonti conoscerà a menadito le principali opere del Park Chan-wook di turno. Ovviamente oltre a lui e a Kim Ki-duk il sottobosco rimane fervido, e capita che saltino fuori perle preziose come questo Mother (2009). Il regista è quel Bong Joon-ho, di cui leggo un gran bene, autore dell’acclamato monster-movie The Host (2006). Non lo conosco molto, ma in Madeo c’è una velata predisposizione all’ambiguo, nei legami familiari in primis, all’eccesso anche con contegno come in questo caso supportato da una tecnica raffinata, che mi fa pensare ancora una volta di quanto terreno abbiamo da recuperare nei confronti dei musi gialli.

C’è del marcio, dunque.
Perché ok, esiste un impianto noir che traccia il percorso del film derivante da Memories of Murder (2003), tuttavia Bong guida la macchina anche e soprattutto fuori dall’indagine dell’omicidio spingendo l’acceleratore sull’immagine della Madre senza nome, lanciando nel cuore aghi di realistica cattiveria come la rivelazione del figlio demente che in prigione ricorda il tentativo d’omicidio e annesso suicido fallito da parte della mamma.
Il carburante che muove le azioni della donna è l’amore smisurato che prova nei confronti della sua creatura indifesa. Le voci che alludono al possibile incesto attorcigliano tra loro ancora di più i due protagonisti isolati dalle istituzioni (polizia e avvocati) e dalla società. Questo amore trasforma la donna prima di tutto in una cieca vendicatrice che non ammette la realtà dei fatti, e subito dopo, come in preda ad un delirio di onnipotenza, diviene la Madre Terra, una divinità che tutto fonde: dal grano in cui all’inizio si muove maldestra, alla disperazione per il presunto colpevole che non ha genitori.
Ci sarà anche uno scheletro da giallo, di sicuro, però, la carne viva al fuoco è ben altra.

Questa impalcatura ha un che di inaspettatamente classico. Boh, deve essere l’uso di archi nello score durante le scene di tensione che mi ha riportato alle musiche di Bernard Hermann, oppure la posizione apparentemente indifendibile dell’accusato. Tuttavia gli attributi tradizionali si fermano qui, perché Bong si dimostrerà in seguito scorretto nella rappresentazione della scena del crimine, e perché nella sostanza non si saprà con certezza assoluta chi ha ucciso quella ragazza. Corroborando l’ipotesi per cui l’aspetto crime è solo il coperchio di una pentola in cui bollono ben altri ingredienti.
La gradita eccedenza di siparietti comici che a lungo andare lasciano spazio ad atti di brutalità sempre più raffinata in pieno stile coreano, fanno di Madre una visione necessaria come quella di Thirst (2009).

Sezione curiosità.
Ad un certo punto, poco dopo la scoperta del delitto, si vede la polizia che porta il ritardato Do-joon sul luogo del crimine, e circondato da fotografi e curiosi viene obbligato ad inscenare nuovamente l’assassinio con un manichino. Questo macabro procedimento era stato proposto tale e quale da Park in Lady Vendetta (2005). Ne deduco che si tratti di una tipica usanza del paese. Che vi avevo detto: c’è del marcio lì!

giovedì 8 aprile 2010

Vital - Autopsia di un amore

A causa di un incidente il giovane studente Hiroshi perde due cose: la memoria e la sua fidanzata Ryoko. Aiutato dai genitori durante la riabilitazione torna a frequentare la facoltà di medicina ed il corso di anatomia. Compito del quadrimestre è quello di sezionare un cadavere, ironia della sorte a Hiroshi toccherà proprio il corpo della sua ragazza.

Quanto inaspettato lirismo da parte di Tsukamoto!
Allontanandosi dalle coste frastagliate e metalliche del cinema che lo contraddistingue, il regista si avvicina alla poesia ascetica di alcuni suoi colleghi dagli occhi a mandorla. Già col finale di A Snake of June (2002) aveva dimostrato di come ci possa essere una nuova speranza al di là e al di qua dello schermo, con Vital (2004) si ripete su questa lunghezza d’onda. È bene però mettere subito in chiaro le cose: qui non si raccontano banalità. Sebbene lo stile di Tsukamoto sia meno spigoloso, i suoi contenuti sono, come sempre, uno dei migliori concimi cinematografici per far nascere congetture dentro di noi.
La scelta cromatica di abbandonare il bianco e nero (ma non del tutto) fa di Vital un film che sublima, che assurge, che in qualche modo si eleva. Questo perché il b/n di Tsukamoto a differenza dell’eleganza bicolore di un Tarr o di un Haneke, è sporco, marcio, arzigogolato, che porta fastidio che trasmigra dolore. Tuttavia vedere a colori e linee geometriche il catatonico protagonista smembrare il cadavere della sua ex amata – e quindi compiere un azione pur sempre fastidiosa e dolorosa – non sfiorerà minimamente il vostro campanello dell’allarme sensibilità/disgusto, per volare più alto di qualunque bassezza ponderabile, centrando in pieno il bersaglio dei sentimenti, e perciò innalzarsi automaticamente.
La sotterranea efficacia della pellicola affonda come il bisturi di Hiroshi nella pelle di Ryoko.
Un uomo che ha amato è costretto a dissezionare l’oggetto del suo amore per poter ricordare; a questa vera e propria decostruzione fisica si affianca la riedificazione della memoria attraverso i luoghi immaginari molto kimkidukkiani nei quali Ryoko si mette a danzare nell’aria in una musicalità che resta, appunto, solo in un territorio chimerico. Forse quella è l’anima danzante, la stessa che Herzog ha cercato più volte di raccontare nei suoi film.

L’anima.
Delle molte recensioni su Vital più o meno tutte rimarcano questa ricerca dell’anima da parte dello studente. Non lo so, io ci ho visto dell’altro, di più viscerale e terreno. Una totale immersione nella vita per capire le cause di una morte. Non è “una caccia” all’anima di Ryoko, almeno non soltanto, perché ad essersi smarrito è prima di tutto Hiroshi, ed è qualcosa di struggente il fatto che per ricomporre se stesso con i suoi ricordi e le sue emozioni debba “scomporre” ciò che più teneva al mondo ma che non riesce a ricordare.
E l’ultima ripresa in soggettiva intensifica allo spasimo quel sapore dolceamaro che permea la pellicola tutta.

Ormai mi sono quasi stufato di parlar bene di Tsukamoto: è un grande, punto.

martedì 6 aprile 2010

Antichrist

Mentre guardavo Antichrist mi chiedevo come avrei riempito queste righe. In che modo sarei riuscito a dipanare l’enorme matassa ingarbugliata di foglie secche, nebbia, urla e sangue per stenderla sul tavolo autoptico del blog? Intuivo che l’impresa era ardua e probabilmente inutile perché a fornire chiavi di lettura per aprire porte sull’ignoto ci avevano già pensato molti critici decisamente più bravi e coraggiosi di me. Perciò ho deciso di fuggire da questo film. Perché mentre osservavo quell’uomo e quella donna dentro il Giardino mi sentivo di troppo. Un ospite sgradito, non volevo vedere né sentire tutto quell’orrore mostruoso che avevo visto in tanti altri film ma che qui era emotivamente distruttivo, di una potenza catartica quasi stordente. Nemmeno il mio cinico voyeurismo voleva continuare ad assistere alla proiezione: mi diceva basta, che senso ha tutto questo? È un dolore che non appartiene a te, non potrai mai capirlo a fondo, ti è lontano incomprensibilmente diverso, e probabilmente è per questo ti spaventa così tanto. Già, non appartiene a me, non appartiene a noi. Ogni fotogramma, dal monumentale ralenti iniziale passando per le repentine zoomate sugli organi sessuali deturpati, concludendo con le donne senza volto del finale, ogni movimento, parola o silenzio, sussurro disperato o grido di sfacelo, ogni filo d’erba gialla e radice avvizzita, contorta, diabolica, ogni ghianda che cade come un senso di colpa, ogni cosa assume i lineamenti di un uomo sulla cinquantina nato lassù al Nord, in terre lontane. Fredde. Buie. Quell’uomo è lui: Ecco perché mi sentivo fuori posto durante la visione. Questo non è un film per noi ma solo per lui. Antichrist È lui. Lo vedo nudo come un verme, appesantito, sdraiato su un divano rosso intarsiato d’ottone che (ci) parla, e sopra la sua testa appare una nube nerastra in cui si materializzano i suoi fantasmi: delle querce marcite, un corvo dissotterrato, una costellazione che non esiste. E poi il terrore archetipale di precipitare nel vuoto, l’incapacità di camminare per il mondo con scarpe al contrario. Una piramide specchio delle sue inquietudini. La distanza a volte incolmabile tra il corpo e la mente, tra il sentimento e l’armonia. Ha paura quest’uomo. Tanta. E noi non possiamo farci niente perché questa è un’opera solo sua, di cui fa parte in prima persona nelle profondità dell’esistenza che vive. Certo, anche io avevo e ho paura nel guardare Antichrist, non tanto per l’horror inscenato ma per l’orrore umano contemplato, tuttavia mi sono sentito un estraneo per aver messo il naso in cose non mie. Mi spiace Lars, lascia che io pianga per lenire almeno un poco il tuo dolore.