lunedì 30 novembre 2009

Dancer in the Dark

Certe volte mi incapponisco nelle piccole cose, nei frammenti, nei dettagli. È più forte di me. Pur riconoscendo che nel film ci sono momenti di maggiore importanza, io non riesco a togliermi dalla testa quel minuto scarso di buio che appare all’inizio del film accompagnato da una musica soave. Un segmento piccolissimo in confronto alle due ore e passa di girato, ma che quando termina con quel crescendo di strumenti apre le porte ad un dramma intenso e intriso di dolore.
Non solo: quei primissimi minuti sono, secondo la mia interpretazione, un flashforwrad che puntuale ritorna nel finale quando Selma, oramai sulla forca, intona l’ultima, o meglio la penultima, straziante canzone dedicata a suo figlio Gene. In quel momento von Trier ci ricongiunge all’incipit dove quella schermata nera altro non è che la visione soggettiva (e uditiva) della protagonista. Selma sente una melodia che gli altri, nel contesto filmico, non riescono a sentire. Accade soltanto nella sua mente, è come se la cecità le permettesse di vedere attraverso la musica. Notate l’ossimoro: “il buio che fa vedere”, l’oscurità rivelatrice. Sarà un dettaglio quella breve sequenza iniziale, eppure sono riuscito a Vedere ciò che sarebbe accaduto, non con gli occhi, ovviamente, ma con il cuore. O qualcosa di simile.

E a proposito di cuore, la suddetta Trilogia si completa così con Dancer in the Dark, il migliore dei tre a mio modesto parere.
Il bello è che l’impianto registico non si discosta poi molto da Le onde del destino (1996): stessa camera a spalla, identico montaggio impercettibilmente scattoso, simile fotografia un po’ meno granulosa. Ma se il film con la Watson non l’ho minimamente digerito, questo con Björk ha magicamente pizzicato le corde giuste fin da subito.
Le motivazioni non sono facili da rintracciare: potrei difendermi dicendo che la cantante islandese è strepitosa nel ruolo di Selma e riesce a comunicare con i suoi passi incerti più della sua “collega” Bess, ma è pur vero che l’attrice britannica ha vinto un Oscar per quel ruolo e quindi tanto male non doveva essere andata.
Allora potrei dire che era dai tempi di The Kingdom (1994) che von Trier non si preoccupava così tanto della storia raccontata piuttosto che del modo in cui raccontarla (in ogni caso la ricerca estetica è sempre maniacale, ma ‘sta volta non scavalca la narrazione), eppure sono macroscopiche alcune facilonerie della sceneggiatura.
Potrebbero essere dunque gli intermezzi musicali? Potrebbero. Tali sequenze sono molto significative sia dal punto di vista della diegesi (come dicevo poc’anzi sono tutte scene che Selma immagina, o forse vede nel buio dei suoi occhi) che della tecnica utilizzata (sono gli unici momenti in cui la mdp è ben fissata e non se ne va in giro sulla spalla di qualche operatore) – fra le altre cose nel finale, durante l’ultima canzone, le riprese abbandonano la geometria dei precedenti stacchetti musicali per omologarsi alle tremolanti inquadrature del film salvo poi salire dolcemente in verticale per morire in quella schermata nera da dove tutto era iniziato, senza musica però, d’altronde Selma non c’è più per poterla sentire, e noi con lei –.

Potrebbero essere queste, insieme a molto altro, le ragioni che mi hanno fatto apprezzare Dancer in the Dark, ma forse le vere motivazioni non possono essere trascritte qui. Non è possibile tradurre l’alfabeto del cuore, e al contempo non lo si può dimenticare.
Guardate questo film. Ad occhi chiusi.

venerdì 27 novembre 2009

Progeny - Il figlio degli alieni

Tutto inizia una notte in cui il dottor Craig Burton (Arnold Vosloo) è a letto con sua moglie Sherry (Jilian McWhirter). Nel bel mezzo dell’amplesso la poveretta viene prelevata dagli alieni e fecondata col loro seme. Chiaramente la gravidanza non è proprio uguale ad una normale ed umana gestazione. Di conseguenza per Craig e consorte iniziano i problemi, soprattutto per lei.

E niente, ordinaria amministrazione direi. Se cercate un film sugli alieni questo non fa per voi.
Il tema ufologico è trattato all’acqua di rose con qualche riferimento più o meno attendibile ad abduzioni “reali”. Qualche elemento stringe la mano alla presunta verità: ominidi che comunicano telepaticamente attraverso una voce corale (“perché tu sei importante per noi”, quante volte viene detto?!) o il missing time che può essere ricordato soltanto dopo una seduta di ipnosi regressiva.
Ma a Yuzna non sembra importare poi molto del lato alieno – vedere come sono rappresentati i suddetti esseri: tentacolari e plasticosi, lontani quindi dall’iconografia classica – per ispezionare (in superficie) il lato umano col drammatico (si fa per dire) calvario di Sherry.

Yuzna è però un regista che sa rimestare nel torbido – ricordate Society - The Horror (1989)? – e piazza qua e là un paio di scenette gore che non sono malaccio. Certo, il budget non doveva essere dei migliori e per apprezzare il lavoro del regista bisogna chiudere almeno un occhio e mezzo, ma qualche spunto ad effetto c’è.
Poca roba eh, comparato ad altre opere Progeny è proprio un filmetto dove anche la sceneggiatura è parecchio raffazzonata. Ad un certo punto, per esempio, il marito lascia da sola la moglie alle prese con una crisi di nervi andandosene al lavoro. Voi penserete che non c'è nulla di male, ma c’è un piccolo particolare: la coppia aveva appena scoperto che Sherry portava in grembo una specie di Alien. Quale cosa migliore se non quella di lasciarla sola in preda ad incubi e dolori lancinanti?
Il finale invece è fico, cioè, più o meno. Almeno non è un finale buonista poiché molto cattivo (ma molto) con doppia beffa inaspettata visto il tenore del film.

Quindi, un breve riassunto di ciò che c’è: alieni tentacolari gelatinosi, le tette della McWhirter (niente di che), le budella della McWhirter (meglio delle tette forse), un tubetto di ferro che zitto zitto se ne va tra le gambe della McWhirter, un buco nel cielo fatto con l’antenato di Paint e Brad Dourif che fa l’ufologo senza sapere che qualche anno dopo diventerà un alieno per Herzog ne L’ignoto spazio profondo (2005).
Se pensate che tutto questo possa essere divertente avete un po’ di ragione, ma non troppa.

martedì 24 novembre 2009

Il nastro bianco

Uscito dalla sala mi ero promesso di non scrivere nulla su questo film.
Spaesamento e delusione: questi erano i sentimenti dominanti. Spaesato perché la mancanza di punti di riferimento è una costante nel cinema hanekiano, ma ‘sta volta anche un po’ deluso perché da Il nastro bianco mi aspettavo qualcosa di differente, non saprei dire precisamente che cosa, ma sicuramente non questo; forse tale scoramento derivava dall’hype che si era notevolmente amplificato con la vittoria di Cannes, e perciò sedendomi sui seggiolini pensavo di andare incontro ad un film sconvolgente quanto e più di Funny Games (1997): mi sbagliavo.
In breve: non mi aspettavo che Il nastro bianco fosse un film così.
E quindi ero fermamente deciso a non scrivere nulla poiché, detto in soldoni, non avrei saputo da dove iniziare.
Poi mi sono venute in mente le parole di un mio professore il quale ci diceva sempre che il vero studio inizia solo quando viene chiuso il libro. Così rientrando a casa ho iniziato a pensare al film, e l’ho fatto anche nei giorni successivi in cui l’eco di Das weisse Band si è diffusa sempre più nella mia testa, facendo sì che io assistessi due volte alla proiezione: una in sala ed una nel mio cervello. Se un film ha il potere di insinuarsi nella mente anche giorni dopo la sua visione significa che ha fatto il suo dovere. E quello scoramento che mi pervadeva all’uscita del cinema si è trasformato pian piano in entusiasmo. Avevo bisogno di metabolizzarlo, digerirlo, assimilarlo: assorbirlo. Solo dopo questo lento passaggio si può penetrare nella diabolica struttura dell’opera.
Una struttura in cui si avvertono gli strascichi dell’ultimo vero lavoro di Haneke: Niente da nascondere (2005). In questi due film l’attenzione non è focalizzata sul colpevole ma sulle dinamiche relazionali pre e post-crimine. Non rivelare l’identità di un assassino capisco che possa essere un colpo basso ai danni dello spettatore, ma ridurre un film di Haneke ad un banale gialletto sarebbe pericolosamente riduttivo e significherebbe mortificare letteralmente il lavoro di un regista che fin da The Seventh Continent (1989) “veste” i suoi film di un abito che in realtà cela significati ben più complessi di quanto lo sono in apparenza.
Rispetto a Caché la mole di materiale umano è maggiore, ed ogni personaggio, dal barone al contadino strabico, ha una caratterizzazione eccellente dovuta anche e soprattutto alla ricostruzione minuziosa che è stata fatta dell’ambiente rurale. La scelta del bianco e nero così perfetto, così lucido, fa da contrasto agli orrendi avvenimenti nella storia. Molti film attuali tendono ad enfatizzare le scene più crude con riprese nel dettaglio, montaggi frenetici e musiche ossessive; Haneke ha una visione totalmente differente della violenza, e ne Il nastro bianco, come in tutti i suoi film, continua a suggerire il male sussurrandolo senza alcun proclamo.

Chi ha teso quella corda? Come è morta la contadina nella segheria? Chi ha violentato il figlio del barone? Chi ha dato fuoco al granaio? Chi ha torturato il piccolo Karli?
Una delle chiavi di lettura adottata da molte recensioni è quella che vorrebbe vedere nel villaggio protestante la culla del nazismo, un’incubatrice della repressione, del sopruso, della violenza. La faccenda può essere interpretata anche così, senza dubbio, ma lo sguardo incolore di Haneke getta ombre che superano cronologicamente le due guerre per insediarsi nei giorni nostri, coprendo un arco temporale che racchiude in sé tutti quei tempi e luoghi in cui il nichilismo ha sopraffatto l’umanesimo. La mentalità nichilista, ormai innestata in maniera capillare nella società moderna, pervade condotte, sentimenti relazioni e azioni. Fanatismo, fondamentalismo e terrorismo sono alcune delle forme estreme di un nichlismo che penetra nella quotidianità annullando l’uomo: dalle banlieu alle bidonville, da Scampia allo ZEN di Palermo, dai lager ai gulag, dalla strage di Beslan al massacro di My Lai, dietro tutto ciò c’è sempre stato un piccolo paese in cui qualcuno ha teso una corda facendo inciampare un cavallo, oppure che ha violentato un bimbo o che ha quasi accecato un handicappato.

Ma chi è stato, allora, a commettere questi crimini? I bambini? Il dottore? Il pastore?
Haneke non ce lo dirà mai. La risposta è dentro di noi, ma dobbiamo fare in fretta a trovarla per non venire inghiottiti da quelle tenebre minacciose che calano nel finale.

domenica 22 novembre 2009

After Life

Cosa accadrebbe se una volta morte le persone della terra si ritrovassero ospiti per una settimana in un vecchio palazzo dove una squadra di consiglieri ha il compito di ricostruire attraverso un set cinematografico il ricordo più bello della loro vita che sarà anche l’unico che potranno portare nell’aldilà?

Da tale malinconico assunto parte questo film del 1998 diretto dal regista giapponese Hirokazu Koreeda. Un film che ha in sé molte delle peculiarità tipiche orientali; un’opera strana, in bilico fra spiritualità ed umanesimo.
In due ore di girato, la prima, almeno, è costituita più o meno esclusivamente dalle testimonianze delle varie persone che raccontano il proprio Ricordo; la camera è fissa su di loro mentre fuori campo si sente la voce di un membro dell’equipe che fa delle domande. Tutto come se fosse un’intervista documentaristica. È strano, appunto.
Il lato più toccante di questi essere umani è la loro serenità nell’accettare la morte: non c’è (quasi mai) il rimpianto della vita, nessuno di loro dà in escandescenza, anzi sono felici nel momento in cui riescono a rivivere il loro amato Ricordo.
Tra tutti i "clienti" si segnala un’adorabile vecchietta che sembra uscita da una manga, ed un triste settantenne che ha scelto… di non scegliere un ricordo. Gli altri "morti" si confondono sullo sfondo, un po’ per le loro storie poco intriganti, un po’ per il taglio da documentario che li vede sempre e solo dialogare con uno dei consiglieri divenendo così impossibile creare un legame empatico con loro.

Nella seconda ora si innestano nella trama principale le vicende di due consiglieri che lavorano nel palazzo: Shiori e Arata. Il loro progressivo ingresso non si amalgama granché all’interno del tessuto narrativo a causa della sopraccitata onnipresenza dei clienti sullo schermo. E così anche il finale risulta debole. Ma solo nella forma. Sì perché se gli elementi negativi da me evidenziati permangono, non posso non sottolineare la profonda riflessione compiuta dal regista con questo film.
Laddove After Life è "piccolo": nella sua messa in scena, nella mancanza di musiche e luci artificiali, si fa "grande" nella metafora rivelando la sua natura intima. C’è il mistero dell’uomo di fronte alla morte e alla vita, e l’inafferrabile Ricordo che diventa eterno grazie al cinema; d’altronde per ricreare quel preciso istante c’è bisogno della pellicola, solo tramite essa la memoria potrà conservare quel Ricordo. Il cinema che supera la morte donando una parvenza di vita. Mi piace.

Sospendo il giudizio, mai come questa volta c’è bisogno del vostro.

venerdì 20 novembre 2009

Back to the roots

Settecentotrenta giorni dopo sono ancora qua.
Sono.
Avere almeno una certezza come Essere è importante perché di (e da) qui si può partire. Quando aprii questo blog di certezze non ne avevo. Sapevo a malapena cos’era un blog, poi il resto è venuto da sé, cioè da me, ma ancora non ero me al tempo, forse non lo sono nemmeno ora, forse non lo sarò mai, ma ora sono, sono e ancora sono. Il viaggio potrebbe essere finito.
Però, prima che questa corsa abbia fine per sempre, ho voluto riportare tutto alla sua origine.
È solo un’illusione formale, non posso più tornare alla radice perché io, nella scrittura, nei miei interessi, nel mio angolo di visuale, sono cambiato in maniera (credo) irreversibile, ma almeno una parvenza d’amarcord non ho voluto negar(me)la. E quindi quell’headlines (si chiama così?) di Oldboy che ora campeggia sopra queste parole è la stessa di due anni fa, quando ancora Oltre il fondo non si chiamava Oltre il fondo, e quando ancora non avrei mai immaginato fino a dove sarei potuto arrivare, che non è niente ma al contempo è tanto, almeno per me.
Anche i colori dei link e del testo sono gli stessi dell’inizio, e come accennato fra le righe, saranno anche gli ultimi. Sì, non ci sarà un dopo, un qualcos’altro o un altroquando, resterà cristallizzato nel tempo, chiudendo ipoteticamente quel cerchio che avevo aperto mesi e mesi fa.

Lo so che vi starete domando quando chiuderò il blog - se non ve lo state chiedendo perché non ve ne frega un cazzo va bene uguale - e me lo chiedo anch’io. Una chiusura teatrale fra un anno esatto sarebbe una degna conclusione, avrei già in mente quale sarebbe l’ultimo film da recensire, quello definitivo oltre il quale non ci sarebbe più niente da scrivere. La speranza di arrivare fin là mi dà la spinta necessaria.
Ecco, il cinema. Questo blog è sorto dalle ceneri di un rapporto, storie di incendi e di ustioni permanenti, è nato in un periodo in cui non-ero, vivevo, sì, ma non-ero. E allora lasciavo segni della mia esistenza su internet. Testimonianze di una vita che rifacevo mia post dopo post. Poi lentamente tutto mi è scivolato dalle mani diventando sempre più impersonale. L’ho voluto io, anche inconsciamente, mi sono rifugiato in un mondo di cellulosa che ho scoperto pian piano, che ho amato ed amo, ma che dopo tante parole riversate su questo confortante spazio virtuale ora ha perso un po’ del suo fascino. Stanchezza, sì. Che nasce da una relazione quasi satura… dev’essere la crisi del settimo anno ridotto al secondo; si sa, son tempi duri questi, come lo sono sempre stati.

Eh, due anni di cazzate sincere.
Due anni oh, mica due giorni. Quante ore sono passate? Quante domande mi sono posto? Quante risposte ho trovato? Quante volte ho sorriso? Quante volte ho bestemmiato? Quanta pioggia mi ha bagnato? Quanto vento mi ha sfiorato? Quanto amore ho dato? Quanto ne ho ricevuto? Quanta paura ho avuto?
Quanta vita ho vissuto?
Quanto.
SONO.
Stato.
Vivo?

giovedì 19 novembre 2009

The Puzzle

L’avevo già detto, ma lo ripeterò. Il titolo di un’opera possiede sempre, e sottolineo sempre, una forza ostensiva. Che sia un libro, un racconto, una poesia, una canzone o un film, il titolo attesta e circoscrive un preciso argomento che verrà poi esteso con il svilupparsi della narrazione. Vale per tutto, anche per un cortometraggio di appena quattro minuti e qualche secondo.
The Puzzle (2008) è il terzo corto di Davide Melini, regista romano classe ’79 che ha girato questo film in una sola notte e in quattro lingue diverse.

La protagonista, interpretata da Cachito Noguera, riceve una telefonata da suo figlio che le chiede dei soldi. La donna, stizzita, riaggancia e decide di rilassarsi costruendo un puzzle. Il disegno che verrà composto sarà agghiacciante.

Il titolo del corto gioca su due piani. Uno più “basso” che richiama con semplicità il rompicapo con cui gioca la donna, ed uno più “alto” che avvolge dentro sé l’intera vicenda rendendola, appunto, un puzzle. I tasselli del mosaico non sono soltanto quelli che la donna incastra sul suo tavolo, ma sono anche, e soprattutto, i fotogrammi disseminati nella pellicola che compongono una sciarada quantomeno inquietante con la sua soluzione finale.
L’opera ha una sua dignità stilistica che affonda nelle pieghe baviane del tempo – mi ha ricordato tantissimo l’episodio Il telefono de I tre volti della paura (1963) – senza disdegnare i più recenti montaggi accelerati alla Kevin Greutert (montatore di tutti e cinque gli episodi di Saw nonché regista del sesto capitolo) accompagnati dalle musiche incalzanti del gruppo italiano Visioni Gotiche. Buono l’uso delle luci soprattutto quando esse non ci sono più, illuminando il volto della donna con l’alone tremolante di una candela.

Dimenticavo, sottolineo con piacere una minuscola citazione che spero non sia il frutto di una mia sovrimpressione: appena dopo la prima e unica dissolvenza in nero appare il Dettaglio di una spirale rossa che si rivelerà la piastra di un fornello. Quel ghirigoro, oltre a rafforzare il concetto di “labirinto” in cui versa il film, mi ha felicemente riportato alle spirali di Saul Bass in La donna che visse due volte (1958).

Se vi va potete vedere The Puzzle cliccando QUI.
E ingrazio sentitamente Davide Melini per avermi contattato.

martedì 17 novembre 2009

Bullet Ballet

Tokyo è un sogno, siamo tutti in un maledetto sogno.

No, il capo della gang criminale si sbaglia di grosso: non è un sogno, ma “solo” l’ennesimo incubo di Tsukamoto che getta il classico uomo medio (interpretato da lui stesso) negli ingranaggi sporchi e marci di una metropoli. Goda, questo è il suo nome, è alla disperata ricerca di una pistola, l’arma con la quale la sua compagna si è sparata un colpo in testa. In questa drammatica caccia incontra un gruppo di spietati delinquenti che lo riscucchieranno nella loro discesa all’inferno.

Non è mai facile parlare di Tsukamoto perché ogni volta che si conclude un suo film si è ancora lì a cercare di comprendere cosa sia successo. La sua narrazione, o forse meglio dire la sua “non-narrazione”, è psicotica, caotica, a tratti seriamente incomprensibile perché va troppo veloce. Noi, pigri spettatori occidentali, non siamo abituati ad un tale bombardamento di immagini + suoni. Però è doveroso provare a capire poiché Tsukamoto sa il fatto suo e non butta mai sullo schermo cose a caso.
Per l’occasione il regista rispolvera un bianco e nero alla Tetsuo (1989) ma qui più pulito, e come per le sue opere precedenti l’uso della mdp è frenetico, i movimenti sono concitati anche nelle scene di raccordo togliendo il respiro per tutta la durata del film. Lo spettatore precipita nello stesso delirio di violenza in cui finisce Goda, un labirinto urbano senza regole se non quelle dettate dalla sopraffazione e dal sopruso. Se il protagonista cerca una pistola per capire il passato e se stesso, noi inevitabilmente seguiamo il suo martirio senza redenzione. Intorno e con lui si muovono figure sinistre, non-vivi che iniettano nel loro corpo una sostanza chiamata speed (un nome un perché) illudendosi di essere vivi mentre in realtà sono più morti che mai. La conferma della propria esistenza è il leitmotiv nascosto della pellicola: tentano di Essere i membri della banda giocando con la vita sul ciglio della metropolitana, e cerca in egual maniera di dire Sono anche Goda, ma per lui accade qualcosa che va al di là dell’ontologia: si trasforma, come sempre per Tsukamoto. Anzi, si identifica con l’arma come il James Woods di Videodrome (1983). Non è più in grado di decidere la propria vita o la propria morte, chi lo decide è la pistola.

Bullet Ballet: la danza delle pallottole, una danza macabra degna del poeta francese François Villon il quale mi suggerisce le parole giuste per concludere: “La pioggia ci ha lavati abbastanza/e il sole ci ha anneriti e seccati; […]/Mai un solo istante restiamo seduti;/ di qua e di là, come fa il vento soffiando/a suo agio, senza tregua siam sballottati”.
Gli impiccati del poeta francese si credono vivi come i personaggi di Tsukamoto; lasciamoli sognare, tanto al loro risveglio si troveranno in un incubo... o all’inferno.

sabato 14 novembre 2009

Good Dick

Se guardo indietro mi accorgo che quel poco di inglese che so l’ho imparato in luoghi di apprendimento informale lontano dai banchi di scuola. E senza vergogna ammetto che, almeno per quanto riguarda le parti anatomiche dell’essere umano, una grossa mano me l’hanno data siti di divulgazione culturale come Pornhub o Youjizz. E quindi quando ho letto Good Dick ho subito drizzato le antenne, un po’ per il titolo in sé (oddio, non fraintendetemi) ma soprattutto perché fu presentato al Sundance 2008, ovvero il più grande Festival americano che tratta cinema indipendente dal quale ogni anno escono fuori dei piccoli gioielli.
Sundance + porno? Piatto ricco mi ci ficco.

Ma con relativo dispiacere sono venuto a scoprire che Good Dick di porno o pseudotale non ha assolutamente niente poiché racconta una storia d’amore anticonvenzionale fra il commesso di un videonoleggio (Jason Ritter) e una ragazza introversa (Marianna Palka, regista e sosia di Claudia Pandolfi) che esce solo per affittare film erotici. Lui, d’origini polacche e senza una casa fissa, insiste nel corteggiamento fino a trasferirsi in casa di lei che si dimostra sempre più indisponente nei suoi confronti. La loro relazione non ha intimità. L’unico, flebile, punto di contatto è la passione per il cinema.
Il tutto è velato da sottile ironia.

Insomma, una commedia romantica in piena regola… ma anche no.
Ciò che differenzia Good Dick da una qualunque pellicola con Hugh Grant o chicchessia è che in questo film non avviene una catarsi materiale dei sentimenti. Anche se l’amore trionfa (in sordina), sullo schermo i due protagonisti non consumano carnalmente il loro rapporto: né durante il film dove il massimo livello di avvicinamento è un “schiena contro schiena” nel letto, né alla fine dove non ci è concesso sentire il bisbiglio di lei nell’orecchio di lui. Dunque c’è sì un rilascio di sentimenti, ma che fortunatamente non si traduce nella canonica scena di sesso, pardon d’amore, tipica delle romcom. E questo è bene, per una volta ci si allontana un po’ dal modello Pretty Woman (1990).
La componente “commedia” si limita a strappare qualche sorriso, va bene così, dovuto più che altro a Ritter che come ogni innamorato cronico calpesta la sua dignità più e più volte. La gag più riuscita è quella della scommessa sul pisello del ragazzo (da qui il titolo?) in cui la gestione dei tempi comici è ben indirizzata nei confronti dello spettatore.

Qualcosa che invece non ho apprezzato granché (ma che tutto sommato non inficia più di tanto il valore dell’opera): i quattro colleghi della videoteca sono proprio delle macchiette di sfondo, il loro compito diegetico sarebbe quello di alleggerire la narrazione principale con qualche siparietto, ma non ci riescono perché sono personaggi troppo poco “caricati”, quasi anonimi.
Altra cosa non piaciuta: l’improvviso e frettoloso cambio di atteggiamento della ragazza. Il motivo scatenante del cambiamento sembra essere la finta prozia che le passa affianco mentre prende la posta, troppo poco per giustificare un tale cambio di rotta; serviva un elemento più presente durante lo svolgimento della storia, qualcosa che riproposto alla fine fosse in grado di legittimare la sua rinascita.

E vabbè, credevo fosse un porno invece era una commedia sentimentale, tra l’altro abbastanza gradevole. Ogni tanto ci vuole…

… un porno o una romcom? Ai posteri l’ardua sentenza.

mercoledì 11 novembre 2009

Encounters at the End of the World

A conti fatti gli mancava solo il Polo Sud.
Innamoratosi dalle riprese subacquee realizzate per L’ignoto spazio profondo (2005), Herzog nel 2007 parte destinazione Antartide con il suo fido operatore Peter Zeitlinger, un uomo che ha preso parte a praticamente tutti i film di Herzog degli ultimi dieci anni come direttore della fotografia.
Scopo di questa gita fuori porta è incontrare, quindi raccontare, esseri umani, e non solo, che vivono alla fine del mondo. Ma di quale mondo si tratti non lo sappiamo, perché di certo non sembra il nostro.

Herzog inizia la sua esplorazione da McMurdo, una base statunitense permanente situata sull’isola di Ross. Poi si reca da alcuni biologi che studiano le creature marine del mare sottostante, poi s’intrattiene con uno studioso di pinguini, poi fa visita ad alcuni vulcanologi concentrati sull’attività di un grosso vulcano.
In questo errare Herzog incontra (quante volte ritorna questa parola?) persone che potrebbero essere dei tanti piccoli Kinski, o dei stralunati Bruno S., oppure degli inguaribili ottimisti come Tim Treadwell. Insomma, le solite storie ai margini della società, routine in pieno Herzog style che ho sentito già decine di volte ma di cui non mi stancherò né ora né mai.
Questa volta hanno colpito la mia attenzione due personaggi. Il primo è un meccanico d’origine azteca che si vanta di aver il dito medio e l’anulare della stessa lunghezza, non so perché ma quel panzone ha un’aria sottilmente inquietante. Il secondo non è propriamente un attore - con Herzog, lo ricordo, anche la natura assume gli stessi connotati del cast – in quanto animale, nella fattispecie pinguino. L’uccello è protagonista della sequenza più toccante del documentario in cui si disegna metafora della poetica herzoghiana allontanandosi dal gruppo di pinguini per viaggiare solitario incontro ad una morte certa. Che sotto quelle piume ci sia stato Cobra Verde, il soldato Woyzeck o il vampiro Nosferatu? Lasciatemi immaginare di sì.

Il taglio registico è il solito. Si alternano panoramiche paesaggistiche (molto suggestive visto l’ambiente ripreso) ad interviste condotte da Herzog stesso che come d’abitudine si cala anche nelle vesti di narratore con quell’adorabile inglese teutonico.
Non il migliore dei suoi doc, ma di certo non sprecherete la vostra esistenza guardandolo.

Il documentario a tutt’oggi non ha ancora avuto una distribuzione ufficiale in Italia.

domenica 8 novembre 2009

Idioti

Che cosa sia Dogma 95 non verrò di certo a dirvelo io, e non perché abbia così tanta fiducia nelle vostre conoscenze cinematografiche, ma perché rischierei seriamente di scrivere delle castronerie avendo visto soltanto uno dei molti film che hanno aderito al manifesto: questo. Il secondo, cronologicamente parlando, anticipato da Festen – Festa in famiglia (1998, ma sono usciti entrambi nello stesso anno) diretto da Thomas Vinterberg, fondatore del movimento insieme a Von Trier.
Il Voto di Castità consiste nell’attenersi rigidamente (ma anche no) alle regole del Dogma che impongono l’uso della camera a mano per le riprese ed il divieto di utilizzare scenografie e musiche extradiegetiche, più altre quisquiglie. In realtà non sempre le norme dogmatiche sono state seguite alla lettera, Idioti ne è un esempio, poiché l’interpretazione del manifesto è a discrezione di ogni singolo regista.
Mi rendo conto che è più adeguato parlare al passato in quanto Dogma 95 ha chiuso i battenti esattamente dieci anni dopo la sua nascita, e mi rendo conto di aver tradito immediatamente il mio incipit illustrandovi sbrigatamene che cosa sia questo movimento cinematografico. Ma vabbè.

Non so se sbuffare dopo la visione di Idioti, non so se gioire, non so che fare.
Mi viene impossibile gridare al capolavoro perché io sono uno strenuo sostenitore del racconto, preferisco una solida narrazione ad un’eccessiva cura formale. Che qui, per inciso, di tatto estetico non ce n’è, ma Von Trier attenendosi ai principi dogmatici crea un film con una propria forma – tremolante, obliqua, rabberciata – che nell’apparire brutta, per non dire fastidiosa, alla vista, diviene la sintomatica espressione di una precisa ricerca stilistica, attraente o no che sia.
L’impressione, del tutto personale, è che il divertimento (leggi: coinvolgimento) in Idioti propenda più dalle parti di Von Trier che questo film l’ha fatto, piuttosto che dalle parti dello spettatore che il film l’ha guardato.
Tutto questo infiacchisce la narrazione, sicuramente l’ultima delle preoccupazioni nel suo cinema, che ha un discreto assunto di base supportato da un cast coraggioso, ma che si perde dentro se stesso e dentro le sue stesse regole.
Io parto dal presupposto che un film venga ideato per suscitare nel cuore di chi lo guarda un qualche sentimento, dal più nobile al più infimo. Idioti produce una reazione pericolosa: l’indifferenza che nasce dalla paura. L’indifferenza è inevitabile perché è la natura costitutiva dell’opera ad essere così. Fredda e grezza. Non ci sarà mai empatia per questo gruppo di persone che si fingono dementi, né odio né amore, solo profonda indifferenza.
E da questa angolazione la pellicola acquista punti perché riproduce la non-opinione che in fondo la società ha dei deviati, ritenuti diversi e quindi “spaventosi” al punto di essere apatici nei loro confronti. Non per niente le scene migliori sono quelle in cui il gruppo di idioti interagisce con le persone “normali” che hanno sempre reazioni distaccate o finte perbeniste nei loro confronti.
Moralismo da due soldi o meno, Von Trier sotto questo punto di vista ha centrato il bersaglio, e lo ha fatto utilizzando il metodo come fine. Attraverso il filtro cinematografico del dogma ha modellato l’opera e le sue componenti.
Siamo indifferenti come lo saremmo nella realtà di fronte a quegli idioti? Bravo Lars, ma lo dico in maniera distaccata, non posso fare altrimenti.

Idioti è il capitolo centrale della Trilogia del Cuore d'Oro. I due estremi sono Le onde del destino (1996) e Dancer in the Dark (2000).

Inoltre il regista Jesper Jargil ha girato un documentario intitolato The Humiliated (1998) che riprende il dietro le quinte del film.

giovedì 5 novembre 2009

Intruders

Film per la tv americana del 1992 (occhio che la data è molto importante) diretto da Dan Curtis (1928 – 2006), regista e sceneggiatore televisivo che girò parecchie serie nel corso della sua carriera spaziando dalle atmosfere dark di Trilogia del terrore (1975) a quelle belliche di Venti di guerra (1983).

L’argomento trattato in Intruders è presto detto: abductions, ossia rapimenti alieni.
Il fatto che questo film sia una produzione a stelle e strisce mi faceva tremare i polsi prima della visione, non foss’altro perché temevo due ore e quaranta minuti di mostri mostruosi che saltavano da una parte all’altra dello schermo. Invece posso affermare con un certo sollievo che l’approccio di Curtis al tema ufologico è abbastanza lontano dal voler spettacolarizzare tutto ad ogni costo, ed anzi, la pertinenza degli argomenti trattati lascia intendere che dietro alle storie rappresentate ci sia stata una ricerca accurata se non nei minimi particolari, almeno in linea di massima. Questo è significativo perché nel 1992 non erano ancora successi due eventi fondamentali per gli appassionati di alieni: il video (tarocco, a quanto si dice) di Santilli del 1995 che ha dato un impulso senza precedenti al fenomeno in questione, ma soprattutto internet! Oggi, attraverso la rete, è possibile sapere in tempo reale se un contadino della Patagonia ha visto delle sfere luminose nel cielo, e le probabilità che in quel momento il suddetto contadino sia devastato dall’alcol non limitano il fatto che un ragazzino dall’altra parte del globo possa venire a saperlo. Tutto ciò alimenta inevitabilmente falsi miti che si gonfiano col passaparola, ma se davvero quel contadino avesse visto “qualcosa” nel cielo?
Nel ’92, di certo, non era così. Degli alieni si sapeva poco (in confronto a oggi), e ancora meno si sapeva delle cosiddette abduzioni (non che oggi se ne parli troppo in giro, forse perché non c’è niente di cui parlare, ma su internet ci sono storie mirabolanti). E la cosa che più mi ha stupito è che ci sono delle grandi similitudini fra la storia di Mary (desunta da fatti presumibilmente accaduti) e le molteplici storie che possono essere consultate nei siti appositi.
Qualche esempio di ciò che accade nel film: gli alieni prelevano le due donne principalmente di notte; inoltre esse hanno un missing time, ovvero un vuoto temporale nella memoria di qualche ora che viene ricordato tramite l’ipnosi regressiva; gli alieni comunicano con i rapiti solo ed esclusivamente attraverso il pensiero; la scelta di “chi prelevare” avviene attraverso una pseudo discendenza, cosicché il figlio verrà rapito così come lo è stato per la madre, per la nonna e così via; nel film vengono mostrati i canonici “grigi” ed anche i famigerati “biondi”; infine viene illustrato uno degli scopi di questi rapimenti: la creazione di una specie ibrida.
Tali somiglianze sono rintracciabili in qualunque testimonianza di abduction. Da questo punto di vista il film è fatto molto bene perché è attinente all’argomento, che poi… beh, non si tratta di un qualcosa scientificamente comprovato e dunque la fedeltà logica non è una verità assoluta come potrebbe essere un film sui bradipi. Se uno nel suo film mette dei bradipi che superano sulla sinistra dei ghepardi ecco che l’opera non è fedele alla realtà. Ma qui si tratta di un qualcosa che a conti fatti non esiste ufficialmente, e quindi che un alieno venga rappresentato bassetto e grigio o che invece sia il sosia di Michael Jackson, non falsifica né invera la realtà, semplicemente perché non sappiamo quale sia. Insomma voglio dire che il film ha una coerenza… illogica, si basa su fatti che non sono riscontrabili empiricamente ma solo per sentito dire (certo, ora potranno venire qua centinaia di addotti a presentarmi le loro prove, e io lo spero perché voglio crederci, ma che siano concrete queste prove!); magari un giorno l’etichetta qua sotto diventerà “Drammatico” e non più “Fantascienza”, nel frattempo non può che restare così com’è.

Ormai dubito che qualcuno sia arrivato fin qui nella lettura, ma comunque se del film si deve parlare è giusto dire che al di là delle cose buone qua sopra, tecnicamente è tutto da dimenticare. Anche lo sguardo di un neofita riconoscerebbe subito una fotografia da porno anni ’80 con nebbiolina misteriosa che si dipana sulla scena, uguale a quella di Communion (1989).
Inquadrature dozzinali e sceneggiatura così così (alcuni punti troppo approfonditi, altri troppo poco) ne fanno un’opera non memorabile, ma se cercate un film che tratta in maniera decente il tema delle abduzioni questo è quello che fa per voi.

martedì 3 novembre 2009

Gli amanti del Circolo Polare

Immaginiamo di trovarci nel bel mezzo di una passeggiata all’aria aperta, nei pressi di un torrente che scorre in una vallata. Quel luogo ci offre una gran quantità di stimoli sensoriali di diversa natura: le luci, le ombre, i colori, ecc. […]
Nel nostro girovagare entriamo in contatto con questi ed altri elementi, che identifichiamo però solo in modo parziale: se da un lato possiamo riconoscere ogni singolo elemento nella sua consistenza, in quanto si tratta di fenomeni noti alla nostra esperienza, dall’altro questa eterogeneità ci viene incontro come un blocco unico e apparentemente irriducibile. Durante la passeggiata, luci, colori, odori e suoni si combinano in un insieme compatto, un insieme che nell’istante in cui ci investe ha qualcosa di unico e irrepetibile, perché perennemente destinato a cambiare: nelle successive passeggiate, infatti, i singoli fenomeni si combineranno per i nostri sensi in maniera di volta in volta differente.
(Sainati & Gaudiosi, Analizzare i film; 2007)

Questa introduzione che spero non vi abbia scoraggiato nella lettura, mi dà il là per creare una poetica similitudine fra il passeggiare in montagna ed il guardare un film.
Cosiccome in un paesaggio si combinano gli elementi sopraccitati, nell’architettura di un film si ritrovano sempre i medesimi elementi amalgamati tra loro in maniera differente. E così il film diviene un qualcosa di eterogeneo e sfuggente, frammentato e allo stesso tempo compatto, unico e al contempo ripetibile.
Se un film racconta la storia di un amore fra due persone inevitabilmente verranno riproposti alcuni topoi del genere, chessò: l’incontro fra i due innamorati, la cosiddetta scintilla, lo sviluppo della loro relazione, l’evento divisore (tradimento, incidente) e così via.
Capite bene che presentare uno schema come questo senza grandi trovate rischia di far precipitare la pellicola nella banalità totale. Fortunatamente non è il caso de Gli amanti del Circolo Polare che, lo dirò subito, è un grande film.
Il lavoro di Medem è davvero pregevole perché valorizza un soggetto non particolarmente innovativo (due fratellastri che s’innamorano), attraverso una struttura narrativa fatta di continui segmenti che si rincorrono, rendendo così il raccontato più intrigante di quanto lo è sulla carta.
Ciò accade perché vengono mostrati i due angoli di visuale – non sempre convergenti – dei protagonisti. È come ascoltare la stessa storia da due narratori differenti, il punto di vista di uno completa e arricchisce l’altro, oppure in certi casi lo cambia fino a deformarlo. La caduta con lo slittino di Otto e Ana è l’esempio di come la visione soggettiva modifichi il ricordo, e lo spettatore è testimone consapevole di questo ping-pong svelatore.

Ma l’aspetto meglio riuscito del film che ha la capacità di insinuarsi nella mente di chi guarda, sono le continue epifanie che si avvicendano nell’opera. Quei momenti che Joyce definirebbe rivelatori, in cui riemergono, o ritornano, fatti, persone, luoghi ed oggetti appartenenti alla memoria. In questo film le maglie del tempo si allargano cristallizzando attimi che oscillano fra il passato ed il presente. Appare più e più volte una brusca frenata che si manifesterà drammaticamente nel finale, ed ugualmente viene offerto l’inseguimento di un uomo (bambino/soldato) e di una donna (bambina/ragazza). E poi i nomi palindromi (occhio a quello del regista) che rimbalzano dal ricordo alla realtà, dal mito alla verità. Sono tutti elementi, questi, che si incastrano nella mente di un poveretto come me che ha il vizio di scrivere i suoi pensieri dopo un film.

Non so quante passeggiate riuscirò ancora a fare, spero tante, ma il desiderio è quello di incontrare sempre paesaggi così belli, non troppo diversi da altri a dir la verità, eppure in una qualche maniera originali, differenti, come se fossero visti per la prima volta.