giovedì 24 maggio 2018

Dentro l'inferno

Dopo una prova incolore come Lo and Behold (2016) – che però risulta il migliore incasso mai registrato di Herzog in Italia (fonte) –, ci voleva poco per offrire ad un pubblico sempre assetato di nuove visioni un titolo che senza troppi panegirici potremmo riassumere col concetto di “interessante”, concetto vago, me ne rendo conto, ma così è, ed Herzog, comunque, quel poco pare lo sappia ancor fare e quindi per l’occasione propone in Into the Inferno (2016) una formula ampiamente rodata composta da tre istanze che così amalgamate in passato generarono apprezzamenti. Un punto da non sottostimare è dato dalla location solitamente esotica e dal correlato album fotografico di cartoline memorabili, e qui visto che si vola letteralmente da una parte all’altra della Terra (tra delle isolette del Pacifico e l’Islanda c’è solo un battito di ciglia), i panorami offerti sono di tutto rispetto (ci pensa già l’incipit con il drone a provocare affascinanti vertigini), il secondo punto basilare è la scelta di un tema portante, ok, questo accade in ogni documentario fin dall’istituzione del genere, bisogna però vedere quanto è il tasso di appeal sul singolo spettatore, e se, per rimanere in tema-Hoerzog, il lavoro coevo peccava in termini attrattivi, Dentro l’inferno ci racconta dei vulcani più grossi e pericolosi del mondo, cioè anche solo l’impatto visivo è di ben altro spessore rispetto alle stanze di qualche università americana. Terza fondamentale questione è che di sovente la traccia principale viene abbandonata in favore di altri rivoli, piccoli e inessenziali, eppure maggiormente sfiziosi del focus d’origine. Il suggello è poi dato dall’immancabile voce narrante del regista che con il suo accento germanico ha creato un vero e proprio marchio di fabbrica.

Into the Inferno è all’incirca quanto ho appena sintetizzato, ovvio che se tu che stai leggendo sei in cerca di visioni destabilizzanti, innovative e pensate su una ricerca artistica, allora è meglio che posi gli occhi altrove. Chi invece si accontenta di quasi due ore di istruttivo disimpegno allora sappia che il film nasce ben dieci anni prima dall’incontro tra Herzog ed il vulcanologo Clive Oppenheimer sul set antartico di Encounters at the End of the World (2007), e si può dire che Oppenheimer stesso diventi qua l’alter ego di Herzog che davanti alla mdp dà sfogo ad una curiosità sì da scienziato ma anche, appunto, herozghiana. Nel jet-lag che lo spettatore avverte a fine proiezione c’è una componente divulgativa in cui si viene edotti sulla pericolosità di alcuni vulcani che in passato (recente e non) hanno causato ingenti danni, oltre a ciò, ed è un oltre che appaga di più (… è il discorso del paragrafo precedente), il buon Werner scova ulteriori affluenti narrativi che acquisiscono un’importanza per nulla secondaria, ed anche se a volte certe connessioni non paiono saldissime con la materia prevalente (vedi la divagazione in Etiopia dove le faccende magmatiche sono appena sfiorate, tuttavia si fa conoscenza di un folle professore statunitense in ebollizione più dell’Eyjafjöll, e tanto ci basta), sono quelle che rimarranno, almeno il tempo di passare alla prossima pellicola, in fondo chi se ne importa di lava e nubi piroclastiche se abbiamo l’incredibile occasione di vedere le briciole di un mondo veramente a parte come la Corea del Nord.

A questo punto sul mio taccuino ho segnato la parola “conclusioni”, ma che posso dire se non una ripetizione dell’evidenza? Dentro l’inferno è un oggetto vedibile con piccole punte di trasporto localizzate non a caso più sul versante umano che su quello scientifico, un’area che Herzog studia a suo modo da molto molto tempo, e ritrovare degli scampoli di tale ricerca un po’ di benevola nostalgia la suscita.

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