sabato 10 marzo 2018

Sta' fermo, muori e resuscita

Non ci sono certezze in Zamri, umri, voskresni! (nemmeno la sua data di uscita, su IMDb è il 1990 per altri siti il 1989), un’opera giurassica eppure di giusto trent’anni fa che fu presentata a Cannes dove vinse la Caméra d’Or, il riconoscimento assegnato ai migliori debutti (ma sempre IMDb ci fa notare che prima di questo film ce ne sarebbero altri due girati nel ’77 e nell’’81), e firmata da Vitalij Kanevskij, un regista russo piuttosto sconosciuto (ma un po’ di luce è stata fatta in un Festival torinese di qualche anno fa che gli dedicò una retrospettiva) la cui carriera ruota principalmente attorno a due opere strettamente collegate, Sta’ fermo, muori e resuscita e Una vita indipendente (1992). Per la pellicola sotto esame la storia si muove in una zona della Siberia infangata e innevata, divisa, quindi, tra la sporcizia degli adulti (ubriaconi, storpi, prigionieri giapponesi, soldati, operai delle miniere) e il candore di un’amicizia tra Galia (lei diventerà un’attrice vera recitando, ad esempio, nel mitico Of Freaks and Men [1998] e in Amour [2012]) e Valerka (lui invece diventerà un delinquente finendo dietro le sbarre, così come testimonia un documentario del 2010 che rappresenta, ad oggi, l’ultimo titolo di Kanevskij). Il rapporto tra i due bimbi, che in realtà, vivendo in un contesto del genere, sono due Piccoli Uomini, è l’unica luce della vicenda, e, quindi, a ripensarci, una certezza c’è, anche se traumaticamente cancellata nel finale.

Zamri, umri, voskresni! rientra in una categoria di film sovietici su cui è complicato esprimere un giudizio oggettivo perché è proprio davanti agli occhi di come molto di quanto esposto sia raffazzonato se non improvvisato e che la non grande esperienza di Kanevskij si ripercuote in una professionalità che non è esattamente su livelli altissimi, eppure da qui dentro si propaga un fascino potente, una veracità che investe e stordisce, la presa di coscienza che ciò a cui assistiamo proviene da un mondo estremo da cui è impossibile distogliere lo sguardo. Perché? Perché la cinematografia russa del passato (ma anche quella più recente: Aristakisian!) sa creare dei ponti magnetici con lo spettatore? Le motivazioni si possono ricondurre ad un’attrazione che, almeno per chi scrive, è fatale: la seduzione del degrado, materiale e umano, il disfacimento civile, i deboli ma tenaci segnali di chi lotta e resiste, tutti ingredienti che puntualmente possiamo ritrovare in Sta’ fermo, muori e resuscita, la cui struttura, ad essere onesti, è davvero molto episodica e non contempla uno sviluppo arioso della narrazione, si procede a rimbalzi tra una marachella di Valerka e l’altra in un singhiozzio dalla portata inarrestabilmente disumanizzante, ma non è un processo né un meccanismo di cause ed effetto, le cose accadono in una porzione geografica dimenticata da qualunque dio e non ci si può fare niente, capita allora che un bimbetto venga assoldato da una banda di criminali con modalità sbrigative e infondate su cui però non mi sento di apporre alcun dubbio, e capita, soprattutto, che si possa venire uccisi senza un perché, e qui Kanevskij è intelligente nel lasciare il dramma fuori campo.

L’estemporaneità esistenziale, la fragilità della vita che laggiù non è legata a niente (forse nemmeno ai rapporti consanguinei), il tirare a campare tra ettolitri di vodka e i vapori del carbone, surclassano l’assenza di una scrittura oculata, gli sbilanciamenti e le accelerate del racconto sono mitigate da scomode oasi che non si scorderanno agilmente, primi piani perforanti come quello del matto che impasta la farina nel fango o quello di Valerka sul cui viso si riflettono i baluginii di un qualcosa che brucia e che nell’annesso controcampo ci mostra tutto l’orrore possibile, fino alla catarsi della mamma di Galia, una detonazione di follia e dolore che è la grondaia di tutto il dolore e di tutta la follia di un intero popolo.

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