mercoledì 6 dicembre 2017

Il solengo

Anche ne Il solengo (2015), esattamente al pari di Belva Nera (2013), emerge una forte narrazione orale orientata verso un qualcosa che non ha una consistenza materiale, se nel corto precedente era una pantera a farsi specchio delle paure di questo borgo laziale, adesso a divenire simbolo di un’alterità quasi indispensabile per il resto dei locali è l’entità-Mario, loro sempre pronti a ritrovarsi nelle chiacchiere di paese davanti ad un bicchiere di vino, lui selvatico, animalesco, scontroso. Probabilmente inconsapevoli del fatto che Mario era una sorta di “lato oscuro” che viveva nei dintorni, come un fantasma, una proiezione di quello che in fondo potevano essere, gli abitanti del paese di fronte alla videocamera di Rigo de Righi e Zoppis parlando dell’eremita alla fine non parlano altro che di se stessi. Così, in questa autobiografia collettiva mascherata da racconto popolare, il fluire delle memorie si sfaccetta in base ai punti di vista dei testimoni, e nel ricostruire la vita del solengo gli episodi si sminuzzano in decine di particolari che danno vita ad una storia epica dove si mescola tutta la meraviglia e il senso atavico proveniente dalla terra contadina. Quello che più emerge e che permette al film di centrare l’obiettivo è la forza espositiva trasmessa, in totale semplicità, senza voler stupire lo spettatore ma accompagnandolo in un percorso che nella dimensione agreste si fa primigenio tanto che il proferire dialettale dei vecchietti sullo schermo potrebbe, per quanto mi riguarda, anche essere inesauribile senza smarrire mai nulla dell’originarietà che sostanzia le loro parole.

Si diceva della semplicità, è un dato che va registrato: Il solengo si alterna a confessioni degli abitanti a riprese estatiche del bosco circostante; in pratica non c’è altro, anche se, ovviamente, c’è già moltissimo. Importante sottolineare che la coppia in regia compie con astuzia un grosso depistaggio che si crea tassello dopo tassello nei confronti di chi guarda, e una volta tranquilli di trovarci in una situazione conoscitiva pressoché completa (d’altronde tutti si riferiscono a Mario parlandone al passato…), ecco che il finale ridiscute gli assiomi fino a quel momento elaborati e la costruzione stessa della conclusione con una sfocatura che lentamente si depura per mostrarci la verità possibile, è un bel momento filmico che smuove certe cose dentro. Non sappiamo chi sia quella persona sul letto, se davvero Mario o un altro Cristo come tanti, l’importante per noi e per la settima arte è il concretizzarsi dell’eventualità proprio grazie al cinema.

Per il resto:

“Non le saprai mai quelle cose”

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