mercoledì 20 dicembre 2017

Berik

Poco da dire e da analizzare su un cortometraggio come Berik (2010), con tutta le buone intenzioni del mondo c’è solo l’evidenza di un’operazione che non ha altri intenti se non quelli di far conoscere la figura di Berik Syzdykov, uno dei tanti martiri silenziosi che popolano questa biglia terracquea. Syzdykov è infatti un elephant man kazako cieco dalla nascita che ha la colpa di essere nato vicino ad un non specificato poligono dal quale ha ricevuto in dono delle radiazioni che gli hanno fatto colare la faccia a mo’ di blob, come quei tumori facciali che le iene dei network digitali espongono in vetrina. Si diceva del lapalissiano intento di voler fare cinema su un freak lasciando qualunque altro aspetto in secondo piano, perché Daniel Borgman, un neozelandese realizzatosi lavorativamente in Danimarca, alla fine agisce proprio in tale maniera: scrive una storiella ridicola da catechismo pomeridiano per iniettarla nel mondo di Berik, ma il tentativo di immissione finzionale nella vita del disabile crea un visibile rigetto fruitivo e nonostante la durata si aggiri intorno al quarto d’ora non manca una forzatura propedeutica al finale conciliante (l’inutile furto dello stereo da parte del ragazzino).

Probabilmente l’unica, brevissima, parentesi capace di far vibrare un attimo la visione è quando si abbandonano i soliti canoni di trasmissione cogliendo Berik nel suo essere più vero, ossia accompagnandosi con uno strumento a corde mentre intona un canto ipnotico, e Borgman affianca alla musica una rapida sequenza di quadri provenienti da chissà quale landa del Kazakistan, il connubio canzone & immagine vale, senza retorica, più di mille parole, o: più di mille tramette superflue. Prodotto dalla Zentropa, ma dubito che il grande boss Lars possa avere apprezzato.

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