venerdì 17 novembre 2017

Leviathan

Insomma, alla quarta prova registica posso affermare con una certa sicurezza che il cinema di Zvjagincev non rientra nell’insieme dell’ammirabile, non lo è stato pienamente prima, e non lo è adesso dopo la visione di Leviathan (2014). Ma che visione è? La solita carrellata di una Russia umanamente inospitale che il regista accerchia e fende per mezzo di due rii: il primo è quello di un j’accuse allo Stato (il faccione di Putin campeggia proprio nell’ufficio del sindaco) e il secondo è quello di un ritratto dei legami personali prossimo allo sfascio con tradimenti, amici/nemici, insoddisfazione generale profonda e radicata. Coniugando questi due aspetti Zvjagincev costruisce un film davvero molto meccanico dove la possanza della sceneggiatura non lascia la possibilità ad ulteriori aperture, di conseguenza colui che guarda si limita a registrare l’accadimento degli eventi non senza una dose ragguardevole di tedio. Il nucleo della questione è che a causa della sua marcata strutturazione artificiosa, tipica di un cinema reazionario che non conosce il mondo oltre le recinzioni, Leviathan autoaffonda sotto i suoi stessi colpi che vorrebbero vestirsi di una ficcante drammaticità e che invece sono pallidi tentativi mirati ad estorcerci qualche emozione, ma noi siamo spettatori scafati e il nostro cristallino non si farà certo ingannare da baluginii così tenui.

La filmografia di Zvjagincev (ad esclusione forse de Il ritorno, 2003), è centrata sulla figura femminea in quanto le donne presenti nei tre film successivi all’esordio hanno un ruolo che spicca e che inevitabilmente si scontra con una controparte maschile imbevuta di vodka. Siamo dunque in presenza di una netta linea autoriale oppure di una reiterazione sterile di tematiche e situazioni molto simili? La domanda apre un dubbio un filo preoccupante poiché le protagoniste di The Banishment (2007) ed Elena (2011) sono coinvolte in storie vicinissime a quelle in cui è impelagata anche Lilya. Da una tale angolazione muliebre si viene dunque a creare una ripetizione argomentativa che non mi sento di definire esattamente appagante. E, ritornando all’opera del 2014, non sazia nemmeno la risoluzione che si dà della tragedia tra Nikolav e la seconda moglie, i passaggi scritturiali nel finale si fanno molto forzati e il quadro che va a delinearsi, dal vago, ma proprio vago, sapore kafkiano, è un presepe di desolazione plastificata dove le varie pedine si muovono su binari pre-impostati e dove i sottotitoli non ci abbandonano mai continuando a dirci imperterriti: “ehi guardate come vanno le cose in Russia!”.

Bravissimo Zvjagincev, per carità, quanta raffinatezza nella messa in scena, che sagacia nello specchiare l’imperturbabile paesaggio circostante dentro i volti paffuti degli abitanti, quale saettamento verso lo sterminato universo-Russia! Sì, ma poi? Non scherziamo, questo cinema nasce già in un tumolo (nella fattispecie fu Cannes) per poi proseguire la propria esistenza zombesca raccogliendo consensi da individui che si nutrono della stessa carne decomposta (eccola lì la nomination all’Oscar). Non vale la pena scomodare la Bibbia o Hobbes, per riferimenti del genere è stato molto più esaustivo l’unico e vero Leviathan (2012), un film di un’altra categoria: quella del capolavoro.

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