Insomma,
alla quarta prova registica posso affermare con una certa sicurezza
che il cinema di Zvjagincev non rientra nell’insieme
dell’ammirabile, non lo è stato pienamente prima, e non lo è
adesso dopo la visione di Leviathan (2014). Ma che visione è?
La “solita”
carrellata di una Russia umanamente inospitale che il regista
accerchia e fende per mezzo di due rii: il primo è quello di un
j’accuse allo Stato (il
faccione di Putin campeggia proprio nell’ufficio del sindaco) e il
secondo è quello di un ritratto dei legami personali prossimo allo
sfascio con tradimenti, amici/nemici, insoddisfazione generale
profonda e radicata. Coniugando questi due aspetti Zvjagincev costruisce un film davvero molto meccanico dove la possanza della
sceneggiatura non lascia la possibilità ad ulteriori aperture, di
conseguenza colui che guarda si limita a registrare l’accadimento
degli eventi non senza una dose ragguardevole di tedio. Il nucleo
della questione è che a causa della sua marcata strutturazione
artificiosa, tipica di un cinema reazionario che non conosce il mondo
oltre le recinzioni, Leviathan
autoaffonda sotto i suoi stessi colpi che vorrebbero vestirsi di una
ficcante drammaticità e che invece sono pallidi tentativi mirati ad
estorcerci qualche emozione, ma noi siamo spettatori scafati e il
nostro cristallino non si farà certo ingannare da baluginii così
tenui.
La
filmografia di Zvjagincev (ad esclusione forse de Il ritorno, 2003), è centrata
sulla figura femminea in quanto le donne presenti nei tre film
successivi all’esordio hanno un ruolo che spicca e che
inevitabilmente si scontra con una controparte maschile imbevuta di
vodka. Siamo dunque in presenza di una netta linea autoriale oppure
di una reiterazione sterile di tematiche e situazioni molto simili?
La domanda apre un dubbio un filo preoccupante poiché le
protagoniste di The Banishment (2007)
ed Elena (2011) sono
coinvolte in storie vicinissime a quelle in cui è impelagata anche
Lilya. Da una tale angolazione muliebre si viene dunque a creare una
ripetizione argomentativa che non mi sento di definire esattamente
appagante. E, ritornando all’opera del 2014, non sazia nemmeno la
risoluzione che si dà della tragedia tra Nikolav e la seconda
moglie, i passaggi scritturiali nel finale si fanno molto forzati e
il quadro che va a delinearsi, dal vago, ma proprio vago, sapore
kafkiano, è un presepe di desolazione plastificata dove le varie
pedine si muovono su binari pre-impostati e dove i sottotitoli non ci
abbandonano mai continuando a dirci imperterriti: “ehi guardate
come vanno le cose in Russia!”.
Bravissimo Zvjagincev, per carità, quanta raffinatezza nella messa in scena,
che sagacia nello specchiare l’imperturbabile paesaggio circostante
dentro i volti paffuti degli abitanti, quale saettamento verso lo sterminato universo-Russia! Sì, ma poi? Non scherziamo, questo cinema
nasce già in un tumolo (nella fattispecie fu Cannes) per poi
proseguire la propria esistenza zombesca raccogliendo consensi da
individui che si nutrono della stessa carne decomposta (eccola lì la
nomination all’Oscar). Non vale la pena scomodare la Bibbia o
Hobbes, per riferimenti del genere è stato molto più esaustivo
l’unico e vero
Leviathan (2012), un
film di un’altra categoria: quella del capolavoro.
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