lunedì 9 ottobre 2017

Oh Willy...

Comunque, è molto bello avere l’opportunità di ammirare l’estro creativo di persone come Emma De Swaef e Marc James Roels, se pensiamo a quello che i due giovani registi belgi hanno fatto per Oh Willy… (2012) un piccolo moto di ammirazione si erge nei loro confronti, d’altronde è sempre onere di certosina attenzione l’impiego del passo uno nel campo dell’animazione, in più De Swaef e Roels (ma il merito in questo campo è della donna che già si era adoperata in questa tecnica con Zachte Planten [2008] e che fin da piccola ha imparato a lavorare la lana) costruiscono un set usando esclusivamente del feltro o materiali equipollenti, quindi è evidente che dietro il quarto d’ora del corto c’è un laborioso processo inventivo che né uno sguardo seppur attento e men che meno una manciata di righe d’apprezzamento potranno rendergli giustizia. Ad ogni modo la scelta dell’ingrediente che plasma il mondo del protagonista è vincente perché riesce a trasmettere un’accoglienza e un delicato senso di sana artigianilità che convincono, così come a convincere è il character design del paffuto protagonista e degli altri esseri umani (e non) che popolano la scena, inutile dire che da quei bottoncini che corrisponderebbero ai suoi occhi delle frequenze di tenerezza si propagano oltre lo schermo.

Se scartabelliamo l’archivio della memoria in cerca di un lavoro paragonabile ad Oh Willy… potremmo portare ad esempio Madame Tutli-Putli (2007) data la condivisione di una similare tecnica realizzativa (anche se, a onor del vero, il lavoro di Lavis & Szczerbowski aveva inserti di computer grafica) e di un raffrontabile apparato climatico, però il corto belga è diverso, perché è vero che possiede una dolcezza di fondo insindacabile ma è altrettanto vero che si prende la licenza di andare fuori strada per tangere, neanche ci fosse il grande Roald Dahl dietro, una dimensione weird che inizia già durante la premessa (la comunità nudista) e che prosegue con altri segnali non-allineati alla legge del “corto animato” o in generale alle leggi di una narrazione accomodante, se si pensa che tutto parte da un blitz notturno nel bosco per espellere i propri bisogni si comprende la portata stramba dell’opera (e della luciferina carcassa in putrefazione cosa vogliamo dire?), al punto che tale traiettoria assume un’impennata con l’assurda entrata in scena del bigfoot. Ma è proprio in situazioni del genere, così sbilanciate e un po’ ballerine, che gli autori possono essere definiti bravi, ovvero quando al di là di qualsivoglia eccentricità permane a fine visione la pienezza di un senso che qui trova meta ultima e sostanziale nella ricerca materna, nel riallacciamento del cordone ombelicale, ad un ritornare nel grembo, nella pancia della mamma per fuggire dalla realtà: abbandonare la vuota casa ereditata e trasferirsi in un luogo mentale come la grotta dei ricordi (l’ombrellone…) dove poter essere, forse, felici.

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