Ritorna la voce dimessa
di Kelly Reichardt e della sua
provincia americana alle prese, questa volta, con due novità: la
prima è l’allontanamento dalla zona dell’Oregon, infatti Certain
Women (2016) è ambientato
nel Montana [1], la seconda è l’utilizzo di una struttura
narrativa che si rifà ad una specie di coralità, e questo è
davvero un mutamento degno di nota poiché se ricordiamo i suoi
lavori precedenti la Reichardt non ha mai dato un peso così
importante al comparto sceneggiaturiale e men che meno a quello
attoriale (c’è Wendy and Lucy
[2008], sempre con Michelle Williams, alter ego dell’autrice, che
fa giurisprudenza: una donna, un cane, nient’altro), però già con
Night Moves
(2013) erano stati dati segnali di un cammino che iniziava a
divergere più di un poco col passato, meno traiettorie esistenziali
ed intimistiche, più focus su questioni sociali e politiche, ecco
Certain Women
prosegue in parte tale cambiamento prospettico e al contempo presenta
di nuovo il tentativo di far penetrare la mdp nell’anima delle
persone, sempre con grande tatto e discrezione. L’equilibrio che
viene a crearsi non è comunque così stabile, come per ogni film
corale che si rispetti anche qui non tutti i tasselli del quadro
raggiungono lo stesso livello attrattivo, in più, allargando lo
spettro esegetico, trovo un filo tediante dover concentrarci sulle
faccende narrative per la valutazione di un’opera, ma qua siamo e
qua dobbiamo stare.
Dunque, l’idea della
regista è quella di mostrarci tre donne quanto più diverse
possibile in rapporto ai tre annessi mondi che le
circondano, quello del lavoro, quello della famiglia e quello
dell’amore. Premettendo che il minimalismo di Old Joy (2006)
è ahinoi solo un ricordo, il primo segmento con Laura Dern nei panni
dell’avvocato è decisamente debole e soprattutto impersonale,
sembra di vedere un episodio di Law & Order che mai ho
veduto ma che immagino così, e fiacchi sono i rimandi “di
denuncia” verso una burocrazia difettosa e verso il maschilismo
nelle realtà lavorative, problema rilevante è che il prosieguo non
contempla alcun decollo ma anzi si esplicita in un ulteriore
passaggio titubante dotato di una preoccupante piattezza, il ritratto
della tipica coppia in crisi è così insipido così… non trovo
nemmeno aggettivi adeguati né vorrei rifugiarmi nelle solite frasi
fatte (“sa di già visto”, “pretendiamo di più”), boh, la
tensione tra la Williams e il marito (amante della Dern) è flebile e
la questione delle pietre da prelevare non fertilizza chissà che
(c’è un parallelo, una metafora, nel volere edificare un muro da
parte della donna? Se sì, ditemelo, grazie), il tutto ci conduce
all’ultima parte che invece raccoglie consensi e che con i dovuti
accorgimenti sarebbe potuta essere un film indipendente, beninteso,
non c’è nessuna sconvolgente rivelazione filmica, soltanto la
semplicità del mettere in scena una solitudine che cerca di non
essere più tale (bravissima la meno conosciuta delle attrici sul
set: Lily Gladstone), il che dimostra di quanto Kelly Reichardt
si trovi più a proprio agio quando gli elementi diegeteci sono
ridotti all’osso. Ecco, è sempre così: nell’asciuttezza c’è
molta più acqua che altrove.
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[1] Non ho ancora visto né
River of Grass (1994) né Ode (1999) né altri corti
della regista e dato che la pigrizia mi impedisce di andare a
controllare, per me la Reichardt
ha sempre girato in Oregon.
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