Un pezzo di Burial ci
porta dentro Bitter Lake (2015), nella sua essenza frattale e
magmatica che trova una perfetta fusione con l’ipnotica litania del
misterioso producer britannico. Ad Adam Curtis, giornalista con alle
spalle parecchi lavori televisivi, ciò che preme di più è
affondare il colpo sulla politica occidentale che ha trovato
nell’Afghanistan una specie di nazione-laboratorio dove americani e
russi, per motivi e ragioni diverse, hanno tentato di esercitare un
proprio potere ricevendo in cambio soltanto delle violentissime
ritorsioni. La ricerca di Curtis è sicuramente ammirabile e
soprattutto esplicativa per coloro i quali (e il sottoscritto ne fa
parte) identificano questo Paese polveroso posizionato da qualche
parte in mezzo al continente asiatico con Osama
bin Laden e gli attentati dell’11 settembre, in realtà c’è
tutta una storia dietro che d’altronde è Storia e che Curtis ci fa
il piacere di narrarci con una linearità che arriva a bersaglio. Ciò è sicuramente un pregio del film perché con una vicenda così
complessa che parte da un incontro tra Roosvelt e il Re dell’Arabia
Saudita sul finire della seconda guerra mondiale presso il Lago
Amaro, si arriva fino ai giorni nostri con la brutale jihad dell’ISIS
in un percorso che attraversa le epoche e la geografia dove tutto, a
sentire la proposta di Bitter Lake,
appare collegato da un filo che intreccia denaro, potere, religione,
fanatismo, faide tribali e così via. Da una tale notevolissima
massa di informazioni il regista trova un metodo espositivo che, come
detto, è in grado di raccontare la difficile situazione globale in
modo chiaro e convincente, di sicuro, da oggi, chiunque voglia
conoscere qualcosa di più sull’Afghanistan non potrà prescindere da un documentario come Bitter Lake.
La comprensibilità dei
concetti avvicina il film a quella dimensione che l’ha accolto (fu diffuso online dalla BBC) e per la quale è stato pensato,
quindi stiamo parlando di un prodotto più divulgativo che artistico
sebbene, ed è obbligatorio rimarcarlo, Bitter Lake sia capace
di scavalcare i paletti della tv, perché la sensazione che pian
piano si diffonde è quella di trovarci al cospetto di un’opera che
oltre ad una mera porzione cronachistica sa lavorare sottilmente
anche più in profondità attraverso un montaggio che in taluni
frangenti si fa sconnesso e quasi indipendente da ciò che la voce
over afferma. Curtis pescando dallo sterminato archivio della BBC
costruisce un flusso visivo che probabilmente suggestiona molto di
più delle parole illustrative, nell’accostare scene sì pertinenti
al tema ma lontane tra loro (anche temporalmente visto che rimbalziamo spesso da un periodo all’altro) si rafforza un senso di
visione che sottende un’autorialità da non disdegnare, certo non
c’è Cinema qui, ma l’oscillare tra immagini brutali come quelle
dell’attentato in presa ultra-diretta a Karzai (credo fosse lui in
macchina, non è spiegato), ad altre di repertorio che riguardano sia
eventi del passato (la costruzione di alcune dighe da parte di
ingegneri americani) che le più recenti attività militari (ad un
certo punto sentiamo [ma non vediamo] alcuni soldati statunitensi
esaltarsi per le loro gesta belliche), sfaccettano un film che ben si
incunea nella sporcizia della guerra preceduta da una cosa ancora più
sporca e subdola come la politica internazionale. Quanto detto è reso
in maniera “interessante”, si evince nonostante la frammentarietà
costituente una discreta solidità di base, e fra le varie istantanee
una che rimane in mente è la lezione di arte moderna ad un gruppo di
giovani afghane, il loro sguardo incredulo nel vedere l’orinatoio
duchampiano su una diapositiva è indubbiamente più attonito
rispetto a quello rivolto alle truppe portatrici di democrazia (?),
per smuovere le coscienze sono sempre meglio le arti che le armi,
peccato che gli esseri umani non l’abbiano mai capito…
Nessun commento:
Posta un commento