lunedì 11 settembre 2017

Les éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom)

Ancora Calais e ancora un cinema che è cinema in un modo disarmante e poco importa se Les éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) (2011) è una protesi che raccoglie i frammenti perduti di Qu’ils reposent en révolte (Des figures de guerre) (2010), nuovamente il confronto con un film importante, comunque connotato da sfumature divergenti rispetto a quello precedente (senti le musiche), ci scuote dai torpori delle visioni narcotizzanti per permetterci un’esplorazione che si estende in direzioni a cui dobbiamo obbligatoriamente volgerci e Sylvain George, colui che intercede per noi, sa condurci in territori che sono concretamente tali (la tendenza a soffermarsi – magari anche più del dovuto – su dettagli naturali, crepe, mari, fronde, fanghi) ed in altri che volano più in alto, oltre la diegesi dello schermo (c’è una parola per questo: umanità, e ce n’è un’altra: empatia), perché nella geografia del regista francese vi è sopra ogni cosa un’antropologia, ed è per questo, forse, che nell’affiancare stralci in apparenza superflui a primi piani strettissimi dei rifugiati si crea un flusso di macerie, schegge, scarti, cocci, detriti che convergono nell’umano dramma contemporaneo del clandestino, e le persone, ah le persone!: come in un confessionale (le loro paure, le loro storie), come in un reportage (i tentativi di fuga, le sommosse della polizia), sono proprio le persone (ultime tra gli ultimi) a fare di Les éclats un film che sovverte i fatti: l’immigrato non è più solo l’anonimo e indistinto disperato in mezzo ad altri disperati, bensì soggetto pensante, attivo, la cui colpa principale è quella di essere nato in un mattatoio.[1]

Il bianco e nero di George sembra essere l’unico canale estetico possibile in un mondo come quello di Calais e della sua giungla (attenzione però all’inaspettato accento rosseggiante […sanguinante?] sull’acqua), nella granulosità delle immagini, nell’aspetto stinto con cui si danno e nel tasso di deterioramento che esse stesse veicolano, il film alla fine penetra in una di quelle dimensioni senza tempo che solo il cinema può donare, e l’impossibilità di inquadrarlo cronologicamente è, se lo si vuole, il riflesso degli accadimenti cronachistici dove la tragedia dei profughi si verifica in un ciclo che non ha né un inizio né una fine ma solo un adesso. Abbraccio cogente verso gli esuli smarriti in Europa, magnetismo formale costruito con semplicità senza sofisticati accorgimenti, trattato esemplare di applicazione della settima arte al reale, ritratto di anime che vagolano nel limbo e la cui vita è una fuga perenne verso la prossima isola, verso il prossimo porto, tutto ciò, e molto altro che non so esprimere, fanno del cinema di Sylvain George il più alto esempio di incontro fra politica e poesia in ambito audiovisivo.
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[1] La sottolineatura di una direzione votata al personale è fornita dai tre aggettivi possessivi presenti nel titolo. Colgo l’occasione per citare lo scritto di Sangiorgio (link) che ha ben enucleato tale fondamentale aspetto.

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