Otoko no hanamichi
(1986) è il primo lungometraggio di Sion Sono, il che ci trasmette
immediatamente una certa importanza filologica perché se si vuole
conoscere il cinema del giapponese si deve per forza passare da qui.
Che il film in questione sia sghembo e approssimativo fino al
fastidio era un dato preventivabile, quello che è possibile vederci
dentro è più che altro un’estensione dei due corti precedenti
(sono tre, ma Ai [1986] non l’ho visto), ovvero Love Song
(1984), di cui risentiamo il fastidioso trillare della sveglia
che troveremo nuovamente in 0cm4 (2001), e Ore wa Sono Sion da! (1985), e proprio da quest’ultimo, la cui traduzione
dovrebbe essere Io sono Sono Sion!, si può approcciare A
Man’s Flower Road poiché la componente autobiografica
raggiunge livelli elevati. Il fatto che Sono voglia fare un film su
stesso, sul suo mondo da venticinquenne, lo si apprende di più nella
seconda parte, la prima invece è un’orgia caotica di immagini in
Super 8 sconnesse e con ogni probabilità insensate, semplicemente:
non si capisce un cazzo. Ma perché non c’è niente da capire. È
solo la deiezione (concreta: Sono all’inizio caga su una pietra in
un’aiuola) di un moto interno, una scarica di rabbia e furore che
fa rimbalzare il giovane Sion come una pallina da flipper da un posto
all’altro, e le immagini con lui, e tanti sono gli scossoni e la
concitazione generale che è necessario prendersi due o tre compresse
di Plasil prima della proiezione. Con tutta la buona volontà
l’anti-estetica di questa prima frazione rende l’opera davvero
inguardabile, troppa troppa e ancora troppa confusione, nemmeno
l’apparizione surreale dei due spiriti del fiume (truccati in un
modo che più cheap non si può) salva la baracca.
La sezione successiva,
che ha di nuovo Sion fulcro della situazione senza però che vi siano
collegamenti diretti a quanto accaduto prima, comincia con quello che
è il segmento più interessante, almeno visivamente, di Otoko no
hanamichi, infatti per una buona decina di minuti il quadro è
principalmente immerso in una casa rimasta al buio dopo un blackout,
timide lucine si accendono, voci nella pece parlano: a sorpresa
qualcosina di stimolante c’è. Poi si scoprirà che la famiglia
all’interno della suddetta casa è la vera famiglia di Sono
e che quindi una delle tematiche che attraverserà una fetta
importante della sua filmografia, e per quanto mi riguarda la
migliore fetta poiché parliamo di un lasso di tempo che va dalla
trilogia del suicidio a Himizu (2011), ha radici strettamente
personali in quanto al ribelle Sion la vita famigliare sembra andare
stretta e il richiamo di Tokyo è dolce e suadente. Ovviamente nulla
è chiaro e anche qua il disordine assoluto legifera indisturbato, si
procede un po’ per intuizioni generate da trovate acerbe e
raffazzonate, si veda il filo d’Arianna che Sono srotola lungo la
città partendo dalla propria abitazione, una sorta di cordone
ombelicale che non riesce a recidere (il filo prende fuoco e lui
correndo a ritroso si ritrova in giardino ai piedi della mamma che lo
sgrida), oppure con il finale dove nella metropoli lascia finalmente
il suo imprevedibile segno.
Sui lavori d’esordio di
Sono non è che si possano registrare chissà quali picchi di beltà,
è roba amatoriale girata senza un soldo con amici/parenti, ad essere
magnanimi se ne può apprezzare lo spirito e ravvisare in embrione
alcune tematiche che in futuro torneranno con prepotenza, ma se si
volesse saltare direttamente a Jitensha toiki (1990) non si
commetterebbe un delitto.
Nessun commento:
Posta un commento