lunedì 28 agosto 2017

Danse macabre

Ecco cosa è Danse macabre (2009): la versione aurea del momento di assenza, di quando il corpo si fa solo corpo, restauro del movimento post-vita, una salma che in qualche modo si illude, o ci illude, di fare ancora parte di quel Gran Ballo in cui siamo ogni santo giorno impegnati a ricordare i passi. Sicuramente il franco-canadese Pedro Pires è uno con un’idea estetica ben definita, ogni fotogramma è pensato e inquadrato in un preciso modo ed anche i mezzi impiegati per le riprese dimostrano una qualità altissima, di gran lunga superiore a buona parte dei prodotti cinematografici che arrivano nelle sale. Da qui si principia un apparato visivo che ha una confezione perfetta per abbacinare l’occhio spettatoriale, ma, come sostenevo per Hope (2011), il corto successivo di Pires, anche per quest’opera ci troviamo in un territorio estremamente artefatto, tutto improntato sull’esteriorità e incostituito da un nucleo francamente assente. Di nuovo dobbiamo confrontarci con un oggetto che non sfigurerebbe affatto se facesse da accompagnamento a qualche brano musicale, e infatti la presenza uditiva della Callas che occupa buona parte della proiezione assurge a protagonista lasciando alle immagini il ruolo di spalla.

Allora, in un estetismo così pronunciato e così spudorato, anche il possibile sottotesto si assottiglia fino a scomparire sotto la mole dell’aspetto. E a dirla tutta il discorso di Pires non sarebbe così scentrato, mettere in mostra questa danza villoniana muta, 2.0, intombata nel digitale, far carico al cinema di poteri straordinari, rendere vivo, anche se solo apparentemente, un cadavere, oppure ricordarci che anche la morte ha una specie di grazia, una propria leggiadria che in Danse macabre di certo non manca (d’altronde sembrerebbe quasi che in ogni situazione, anche una volta riposta nella bara, gli spostamenti della donna siano i passi di una ballerina), tutti intenti meritevoli d’attenzione che però al cospetto di cotanta costruzione si smaterializzano. Forse sto guardando le cose dal mio piccolo e inutile recinto ma pur cercando di aprirmi all’oggettività non riesco più a digerire la pesantezza della mano registica. Voglio natura, origine, verità, e non involucri spacciati per videoarte.

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