Sommerso dalle travolgenti onde
dell’oceano-Sono, 0cm4 (2001) è un piccolo corto di cui si
potrebbe anche fare a meno, però, e ora mi rivolgo soltanto agli
affezionati del regista giapponese, anche qui possiamo rintracciare
alcuni segnali stilistici che sebbene non aumentano il gradimento
della visione in un qualche modo fa piacere che ci siano. La storia
del protagonista daltonico che vede il mondo in bianco e nero e che
decide di tenere un videodiario durante i giorni che lo separano
dall’operazione, diventa un’occasione per riversare nel breve
tempo a disposizione una notevole quantità di tic personali: già la
forma diaristica annessa all’attesa del verificarsi di un evento
importante riporta a Keiko desu kedo (1997), inoltre abbiamo
l’insistere su una scena dove il ragazzo, sdraiato sul pavimento di
una stanza mentale tutta colorata, è ossessionato dal trillare di
una sveglia, questo, oltre a suggerirci un possibile avvicinamento al
ridestamento “ottico” vissuto con rabbia/preoccupazione, è una
lampante citazione del primissimo oggetto non identificato di Sono,
Love Song (1984), dove si ripresentava una situazione
identica. Ma chiaramente la questione che salta più all’occhio è,
ancora una volta, il tentativo di aprire una parentesi meta
all’interno dell’opera, e pur trovandoci in una situazione
ridotta ai minimi termini, 0cm4 offre comunque uno studio di film-nel-film in cui la presenza di dozzine di telecamere atte a
fungere da protesi oculare per l’uomo diventano un meccanismo
ludico che svela i dispositivi tecnici. Sull’argomento
rivolgersi a Into a Dream
(2005) e ovviamente a Why Don’t You Play in Hell? (2013).
Al di là della constatazione di un
discorso poetico più o meno continuo nella carriera di Sono che mi
rendo conto monopolizza gran parte dei pensieri che scrivo sul
giapponese, 0cm4 accenna a tematizzare l’idea interrogante
su chi, tra un daltonico e il resto delle persone “normali”, vede
il mondo nella maniera corretta. Il dubbio, instillato da una rapida
riflessione del protagonista, resta, come prevedibile, privo di un
degno sviluppo, si preferisce optare per sequenze un po’ strambe
arrangiate così così (così: non eccelse per estetica)
costantemente accompagnate da un tappeto musicale davvero bruttino
che confluiscono in un finale microscopicamente aperto e forse non
privo di una punta d’amarezza.
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