martedì 16 maggio 2017

Un'ora sola ti vorrei

Opera di montaggio (si tratta, qui, esclusivamente di materiale d’archivio) e di memorie (perché tale materiale riguarda direttamente gli avi della regista Alina Marazzi), Un’ora sola ti vorrei (2002), che ha solo la colpa di aver anticipato quell’odiosa moda recente di intitolare i film come alcune canzoni della musica leggera italiana, è un modello di cinema che guarda a Chris Marker mitigando la portata sperimentale in favore di una fortissima intimità che genera una specie di caldo guscio contenente ciò che ci fa spesso tenere sulla corda della narrazione: una storia, no? Una storia in cui la Marazzi, già assistente di Paolo Rosa ne Il mnemonista (2000), riesce a trasmettere una portata di sentimenti che è quasi una bordata, e, pur non essendo un titolo altisonante, possiede comunque una filigrana preziosa che lo fa imporre, ma sempre con delicatezza, alla nostra attenzione. Noi, spettatori che niente sanno della famiglia Hoepli e dei suoi discendenti, subiamo la dolce invasione di questo cinema epistolare dove la strenua forza del ricordo, pur non appartenendoci minimamente, ci riempie, tale è la potenza della settima arte quando incontra la Grande Reminiscenza e quando il tutto è predisposto come la regista ha fatto, si tratta, in una parola, di colmatura.

Ma Un’ora sola ti vorrei non può e non deve sfuggire ad un’analisi attraverso l’ottica del legame madre-figlia perché nel suo nucleo c’è quel laccio che pulsa; un battito di lucore, un diffondersi dorato, è un documento davvero triste ma di una tristezza che sa di vita, e non di una sola, bensì di due e di come la figlia Alina, attraverso un processo di evocazione, diventi anche la propria madre Liseli che parla a lei, e quindi a se stessa, in un viaggio sentimental-coscienziale che è tanto elegia quanto elaborazione di una perdita fino al relativo, possibile, superamento, perché la protagonista del film non è Liseli Hoepli Marazzi, ma Alina, cui un dio ha donato lo stesso sguardo malinconico della mamma. Immagini-piume che dondolano nell’aria, fasci di particelle souvenir, la soggettività di una donna/figlia/regista che si apre all’altro uomo/figlio/spettatore, c’è, e lo si sente, un cordone ombelicale che in fondo lega ognuno di noi agli altri, se lo vogliamo, se lo vogliamo sentire. Meraviglia su un dettaglio: “aspettiamo un bambino…”

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