venerdì 17 marzo 2017

A mosca cieca

Quello che posso dire di A mosca cieca (1966) partendo dal presupposto che non so assolutamente chi sia Romano Scavolini è ciò che si può leggere nei commenti sparsi per la Rete, e quindi vado a confermare l’effettivo tasso sovversivo di un film censurato, sommerso, sgangherato, che non solo si disallinea dal cinema del suo tempo ma che lo fa anche col nostro rivelandosi un esemplare dotato di una precisa singolarità. Certo, siamo in un territorio estremamente grezzo in cui uno Scavolini ventiseienne edifica distruggendo: è un caos continuo dove ad un montaggio serrato, vero e proprio collage respingente ed idiosincratico, si accompagna un sonoro invadente e insensato, tutto ciò dà i natali ad un flusso filmico che vive nell’ossimoro, i tasselli scorrono ma sono violati, insertati, riproposti allo sfinimento (il furto della pistola), spesso indipendenti gli uni dagli altri. È chiaro che in un caso come questo dove non ci sono coordinate si è spinti a rintracciare un’ampia varietà di interpretazioni, sia diegetiche che extra, e nella seconda categoria può rientrare il discorso di uno Scavolini pronto a fronteggiare il cinema imbullonato dell’epoca (che poi non è tanto diverso dal cinema di oggi) sganciando una molotov come Ricordati di Haron (titolo alternativo), sicuramente sarà così ma il sottoscritto non conoscendo granché il contesto artistico italiano degli anni ’60-’70 preferisce tacere e limitarsi ad un timido assenso.

Eppure nonostante la dinamitazione compiuta da Scavolini alle normali prassi visive si percepiscono brandelli di logicità. Dice bene Baldaccini su Rapporto Confidenziale (link) quando afferma che comunque possiamo sentire un racconto ma è un sentire di tipo “presente-altrove”. Non può che essere un’osservazione a favore di Scavolini, se il regista nato a Fiume è stato capace di instillare la dimensione di una narrazione pur non adoperandosi minimamente per trasmettere dei dati lineari allo spettatore, significa che qualcosa c’è. E in effetti la “storia” che emerge pullula di spunti, aperture e vicoli ciechi che hanno come ipocentro il protagonista maschile, uomo in trench costantemente in fuga, e la sua tormentata relazione con una giovane donna. Il tormento è forse il sentimento che affiora con maggiore vigore, è uno strazio latente situato in un essere metropolitano, tanto che plausibilmente vedere il film attraverso una lente sociale potrebbe rappresentare un ulteriore appiglio di riflessione. Avaro di spiegazioni, A mosca cieca si configura nella nostra mente come la radiografia di un gesto insensato, il suggerimento che dietro alla follia non debba esserci necessariamente un’eziologia, un film ruvido che gratta via la ruggine delle visioni appiattenti, per nulla bello, per nulla comodo, fortunatamente.

Nessun commento:

Posta un commento