domenica 5 febbraio 2017

Phantom Love

È un film femmineo Phantom Love (2007), un’opera-vagina che ci permette di copulare con una serie di dimensioni a cui, è il caso di dirlo, non siamo preparati, perché l’irregolarità narrativa che Nina Menkes diffonde nel lungometraggio dissesta la prassi e di conseguenza anche la visione. La logica acchiappa un’interpretazione: quella del triangolo famigliare madre-due sorelle che lentamente trascina le giovani in un vertiginoso abisso, e per implementare questo stato di dedali e trappole oniriche la regista d’origine austro-tedesca fa del suo meglio per soffiare in scena una nebbia che sa di oblio e che si propaga oltre lo schermo, alla resa dei conti ritengo che un film come Phantom Love non necessiti obbligatoriamente di una decodificazione razionale, è in singolarità come queste che dialogano apertamente con una certa sperimentalità che le convenzioni saltano e se loro saltano allora anche la costrizione di ritrovarvi una storia al suo interno si dissolve. Ecco dunque una specie di libertà, di noncuranza verso chi guarda. Se ci si riesce a sintonizzare su tali frequenze è possibile trascendere la conformante ricerca aprioristica di una narrazione, di fronte ad un lavoro come quello della Menkes si attraversa la porta del sensoriale dove i dogmi del tempo e dello spazio vengono divelti.

Un approdo in lidi così lontani dalla tradizione può comportare comunque il rischio di sfociare in un narcisismo autoriale dove il flusso filmico tende ad assumere i connotati di un fiotto spermatico, risultato della pratica onanista applicata al film, è un’eventualità riscontrabile in prodotti tendenti all’estremo come questo laddove il confine tra lo specchiarsi nell’estetismo e fare dell’estetica l’architrave che ne regge la totalità è talmente labile che spesso una delle due strade finisce per soverchiare l’altra. Comunque, per quanto possa valere il giudizio del sottoscritto, Phantom Love non ha, o almeno non in maniera così acuta, l’insolenza artistica di cui sopra e mi sento di affermare con moderata sicurezza che la mia memoria fotografica non cancellerà facilmente alcuni passaggi visivi che popolano il lungometraggio, simboli (il serpente nel corridoio kinghiano) o immagini fine a se stesse (di nuovo il serpente…), sequenze inintelligibili (la lievitazione sul letto in stile Tarkovskij) e altre illuminanti (la splendida sovrapposizione di pellicola che fa delle due sorelle una sola Donna), per un catalogo di forme abbacinanti tra il carbone e il nitore, una manifestazione fattuale sul potere suggestionante del cinema.

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