mercoledì 11 gennaio 2017

Aramaki

Pianosequenza di venticinque minuti dallo sguardo etologico, l’animale in via di estinzione è l’Uomo e Hirabayashi lo suggerisce con la finezza del dettaglio facendoci capire che ci siamo proprio noi, Io e Te, in quell’umida foresta impegnati in gesti all’apparenza incomprensibili. D’altronde in un quadro così basico alcuni elementi non possono essere casuali, e attraverso il mantra less is more che non dà coordinate specifiche e che quindi arriva ad irradiare tutta l’indeterminatezza dell’universalità, spiccano delle rifiniture altresì fondamentali perché l’uomo pronto a commettere l’atto più estremo è un fantoccio mondo globalizzato, è l’ovest del pianeta (un ovest che sta anche ad est, anche in Giappone) che ha brandizzato le persone, ha logoizzato i corpi: il protagonista indossa una felpa arancione dell’Olanda, sotto di essa ha un’altra felpa – forse – del Brasile, e ancora sotto una maglietta con sopra degli alieni stilizzati, infine porta delle scarpe colorate dell’Adidas. Questo è un melting pot disidentificante, l’armatura dell’essere vivente civilizzato è esattamente così, una divisa che mettiamo su per la battaglia della vita, ed è proprio a causa di ciò che lì dentro ci siamo Noi. Non Vi convince nemmeno il selfie che il tizio si fa poco prima di… ?

Con uno spessore concettuale di molto superiore a Soliton (2014) che si presentava più come un esercizio tecnico senza particolare profondità, Aramaki (2010) centra chirurgicamente l’illustrazione laterale di una fine laddove lo svestimento degli abiti diventa acquiescenza con la morte e, soprattutto, regressione totale dal mondo così come lo conosciamo. L’animalizzazione è pronta e servita: in uno scenario lustrale dove non basta uccidersi ma c’è anche bisogno di essere martoriati dai lupi, il passaggio tramite il mezzo-cinema da uno stato biologico all’altro è una trasformazione che ho trovato realmente investente e pregna di possibili significati, la voce di Hirabayashi, che gioca con lo spettatore mimetizzando un cappio penzolante nell’ambiente boschivo, è un de profundis atavico, un teatro dell’espiazione ancestrale dove le colpe da pagare sono però rintracciabili nel falso mito del benessere occidentale. E quando stiamo per alzarci dalla poltrona i titoli di coda, altra prova d’eclettismo del regista che lavora spesso nel campo animato (anche per bambini), ci rinchiodano sul posto. E il 2D spalanca l’abisso.
Presentato a Berlino 2010.

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