mercoledì 5 ottobre 2016

Love Song

Fotogramma di una donna che sale delle scale su cui sono state poste delle candele accese. Cambio scena ed un uomo è disteso sul pavimento, affianco ha una sveglia che comincia ossessivamente a trillare, l’uomo si alza per gironzolare nervosamente nella stanza fatiscente, ad un certo punto scaglia una trave contro la finestra e con un coccio di vetro tenta di lavarsi i denti, poi si avvicina ad un lavandino fuori uso e con dell’acqua invisibile si deterge la faccia, infine mette su giacca e cravatta per inoltrarsi nei corridoi del palazzo mentre sullo schermo ritorna per alcuni istanti il viso della donna.

Quell’uomo è Sion Sono e Love Song (1984) è in assoluto il suo primo vagito nel mondo-cinema. Onestamente non riesco a trovare collegamenti significativi con il Sono che verrà, sì forse la figura femminile è un’antenata delle molteplici Mitsuko che popoleranno la filmografia del giapponese, ma è un laccio debolissimo nonché forzato da un’ostinata ricerca filologica da parte del sottoscritto. In realtà questo breve cortometraggio non ha nient’altro che non sia lo spirito amatoriale di un al tempo ventitreenne che inizia a cimentarsi nelle riprese con l’8mm, il che ci catapulta in avanti di ben ventinove anni sulle tracce dell’Hirata di Why Don’t You Play in Hell? (2013) e alla sua necessità di riprendere qualunque cosa gli girasse intorno. Pur non avendo punti intrinseci di memorabilità, Love Song resta una chicca per il suo essere miccia del dispositivo sononiano, la scintilla dove non c’era nulla (nemmeno Miike, il regista nipponico più vicino a Sono ha esordito negli anni ’90), il big bang che ha dato origine ad un universo in imperterrita espansione.

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