domenica 25 settembre 2016

A Fábrica

In un Paese come il Brasile dove l’asfaltante progressismo di Lula ha completamente eliminato il ceto medio, ci sarebbe bisogno di molto più cinema rispetto a quello che, almeno il sottoscritto, ha potuto visionare negli anni (i suggerimenti sono ben accetti). In attesa di portate più sostanziose, per colmare la latitanza si può anche sbocconcellare con A Fábrica (2011) di Aly Muritiba, cortometraggio che fa leva su un effetto automatico della povertà: la prigione. La tematizzazione del carcere, e dell’uomo obbligato a vivere in tale ambiente, sfocia in un taglio che nella settima arte odierna è la routine, la ricerca ostinata di un realismo comporta la pedissequa marcatura degli attori in scena, una soffocante stretta sui corpi che qui, vista l’ambientazione, non risulta stonata (Muritiba è così interessato al mondo-galera che nel 2013 partorirà un altro film girato in un penitenziario: Pátio). Fiorisce, allora, un frutto piccolo finanche acerbo ma con una veste formale che si guadagna comunque la dignità minima per farsi seguire fino al suo quindicesimo minuto.

Scorrendo il ricco palmarès di A Fábrica salta all’occhio il quasi accesso alla magica cinquina per la vittoria dell’Oscar, non si tratta di una bazzecola perché tutti sappiamo che se un prodotto cinematografico giunge alle porte di Hollywood non ci sarà pressoché nulla di interessante per degli infaticabili cinefili, così la chiusura da family-drama potrà risultare commovente per i multisala-friendly e, viceversa, urticante per coloro i quali rifuggono ogni eccessiva intensificazione sentimentale. Accogliendo l’ammissibilità di ambedue le posizioni, cerco di trovare un approdo sicuro nel summenzionato contegno generale; già il fatto che non si sbandieri la condizione del prigioniero fa acquistare dei punti, inoltre la compostezza diffusa si riverbera (o si genera) anche dall’umanità in scena con l’anziana mamma, esempio principe di quanto vado dicendo, che con uno stratagemma è capace di sterrare almeno una valida lettura (la maternità della vecchiaia: partorire un cellulare dentro un lurido cesso per aiutare il proprio figlio), anzi due (la paternità di un detenuto: la menzogna appesantisce più della clausura). Il quadro è questo e al netto della piaga sentimentalistica, un’afflizione che riguarda la maggior parte degli oggetti narrativi (con qualunque chiave di volta: il colpo significante è un obbligo, ma quanto vale invece un’indefinibile apertura?), A Fábrica si rivolge a voi con umiltà e un rispetto accettabile per la vostra intelligenza, bistrattarlo troppo no, dài.

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