martedì 23 agosto 2016

Vic + Flo Saw a Bear

A parte l’interessante Bestiaire (2012), che comunque come scrissi al tempo poteva in teoria avere collegamenti con il resto del cinema di Denis Côté, è evidente di quanto ormai questo regista canadese abbia edificato il proprio discorso filmico utilizzando elementi continuamente ricorsivi e Vic + Flo ont vu un ours (2013) è la più classica delle conferme nonostante, sia chiaro, non ci troviamo al cospetto di una classicità tout court, Côté ha quello che dovrebbe essere definito uno “stile” altro, l’efficacia dello sguardo laterale che si svincola, una libertà sintattica che scuote discretamente la narrazione, e tutta una serie di farciture ossessive, occludenti: si è sempre detto del costante confronto nelle sue opere tra uomo e ambiente, e di ciò non mi dilungherò oltre se non per confermarne la presenza anche in questa pellicola presentata a Berlino, ma sull’umanità di Côté c’è ancora da dire: sono sempre marginali i suoi uomini, esseri periferici impegnati in una auto-esonerazione dal mondo (la scintilla carrieristica è esattamente così: Les états nordiques, 2005), non una fuga, piuttosto la ricerca di un’invisibilità redentiva, il non essere visti (cosa che accade proprio nel bellissimo finale di Vic + Flo) è la grande regressione, celarsi agli occhi degli altri, per la coppia lesbica una sorta di Paradiso utopico, mentre per il regista canadese un mantra tecnico: non mostrare ma elidere, sempre, al pari di Les lignes ennemies (2010) dove il nemico non si vede mai, anche qui nessun orso compare sulla scena. E poi l’affrancamento dai regimi categoriali è notevole: le tendenze di Côté si spingono in aree di partenze che comunque ritornano, c’è conciliabilità nelle sfumature sentimentali di Vic e Flo e gli adombramenti thriller, altra possibile sovrapposizione con Nos vies privées (2007), e le inversioni ironiche (ma fino ad un certo punto: quello della tragedia) provenienti da Curling (2010).

Detto questo, ritengo Vic + Flo ont vu un ours il film più scialbo del regista nato in Canada. La continuità è un dato di fatto, ciò non mitiga certe impressioni che chi scrive ha riscontrato nei seguenti termini: se dobbiamo parlare di “storia”, cosa negativa perché il cinema non ha più bisogno di storie da raccontare, è inevitabile soffermarsi su un tessuto maggiormente articolato rispetto al minimalismo dei suoi predecessori (non di Curling probabilmente, ma lì la questione non pesava), il punto è che quanto offerto da Côté sul piano narrativo non si appaia alla confezione, ritengo che manchino dei punti cardinali nella vicenda di Vic e Flo, semplicemente: non cattura, non dico che sappia di già visto, è più una questione di saper gestire certi tipi di attese, cosa strana visto che in passato Côté aveva dimostrato di saperlo fare, e di giungere a svelamenti significanti e penetranti (non ci sto ad una vendetta qualunque ai danni di Flo), o di non giungere affatto da nessuna parte, che forse è il meglio che ci si può attendere, galleggiando nell’indeterminata apertura del non detto. Si dice troppo qua, sempre per i codici di un’opera d’essai, sia chiaro, ma c’è un eccesso di artificio (la cattiva è un personaggio davvero strano, non mi pare così riuscito, nemmeno in un’ottica surreale) che sporca il nitore dell’originarietà, e dubito che qualcuno ami assistere ad elementi di inautenticità, soprattutto se derivanti da uno con la fedina quasi immacolata. Peccato.

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