venerdì 1 luglio 2016

Segreti di famiglia

La confezione disorienta un attimo, Louder Than Bombs (2015), comunque, è un film americano, il che ci obbliga a rapportarci con una smaccata ostensione attoriale e con un’atmosfera (se così può definirsi) che ovviamente nei due film precedenti di Joachim Trier non erano presenti. Il contesto è dunque dipinto a stelle e strisce, un “colore” che, e sfido chiunque a dire il contrario, non c’è bisogno di vedere in altri spazi che non siano quelli televisivi. Ma prima di dare dell’allineato a Trier, bisogna accendere l’interruttore celebrale ed ammettere che la sortita oltreoceano ha una coerenza davvero forte all’interno della sua filmografia, e questo depone già a suo favore poiché registriamo un discorso che sembra stratificarsi esemplare dopo esemplare. Partiti con Reprise (2006) dove venivano gettati i semi di un malessere che troveranno fioritura e immediato appassimento con Oslo, August 31st (2011), in Segreti di famiglia il ruolo della Huppert appare la prosecuzione fantasmatica del suo predecessore: lo stesso gesto (o così ci viene fatto intendere) li accomuna, la stessa velata insoddisfazione, i medesimi scampoli di una vita che sarebbe e avrebbe dovuto essere più felice. Constata una continuità filmica, basta poco per sconfessare l’idea di trovarci di fronte ad un prodotto esclusivamente da botteghino, certo, permangono delle situazioni un po’ troppo patinate (l’incidente potrebbe quasi entrare in un qualunque blockbuster), ma Trier è bravo nel rendere la narrazione un flusso che vive più di rimbalzi che di sequenzialità, come se l’intenzione fosse stata quella di puntare sì all’introspezione psicologica ma servendosi dell’irregolarità dei ricordi, della loro luce effimera, pulsante e al contempo fievole, instabile.

Film sulla virtualità dei rapporti umani (ritratti nel divertente siparietto degli avatar tra padre e figlio) e sulle difficoltà dei legami consanguinei: ogni personaggio in scena ha un’esistenza sofferta, devastata per motivi apparentemente diversi eppure concretamente uguali: tutto va ricondotto alla grande assente/presente madre fotografa, una donna che si nutriva del dolore altrui senza però riuscire a combattere il proprio. Il Dolore, per chi scrive, è il vero protagonista dell’opera, un male borghese, elitario, trasmigrato nei corpi e nei cuori dei superstiti della famiglia. A questo punto sembra profilarsi una sommossa di Trier al cinema americano poiché il norvegese vestendo l’opera di un abito chic e guadagnandosi così una maggiore distribuzione, sotto la superficie dissemina cadaveri a cui magari il pubblico dormiente non è abituato. Perché Segreti di famiglia ha un’intelligenza propria, un valore interrogante, una scrittura non banale dove anche la figura del “solito” ragazzino introverso (c’è un che di ...E ora parliamo di Kevin [2011] e casualmente il fratello maggiore chiederà a quello minore se per caso non abbia intenzione di fare una strage a scuola) assume sfumature fresche ed empatiche (il rivolo di urina dell’amata e l’immediata commozione: per il realizzarsi del “contatto” o per il ricordo della mamma?), e dove in generale l’aura del non-detto impreziosisce la struttura globale in cui alla fine emerge anche un filo di resurrezione: è il padre a guidare quell’automobile verso il futuro, così come in apertura è la manina del neonato ad aggrapparsi a quella del papà.

Ignobile, più del solito, la traduzione italiana del titolo perché oltre al ridicolo tentativo di suggerire una sorta di mistero attorno ai vari protagonisti, finisce per divenire l’omonimo del film di Coppola del 2009. Che pena.

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