sabato 23 luglio 2016

Męska sprawa

Quello che c’è è lì: quasi fosse neorealismo, come alcuni lavori provenienti dalla Romania nell’ultima decade, Męska sprawa (2001) vorrebbe essere una polaroid di quel momento preciso, vedremo alla fine se ci riuscirà, intanto annotiamo le impressioni più calde: il seppiato aliena, se fosse stato a colori il krótkometrażowy di Sławomir Fabicki avrebbe avuto una natura altra, con ogni probabilità più mansueta. Poi si ravvisa il contesto sociale, nei limiti della rappresentazione qualche eco arriva flebile: la povertà è la povertà, non ci piove nel vedere la madre che assembla bambole di plastica in casa, o i vestiti sempre luridi del protagonista (intenso: la cosa migliore dell’opera) [1]. Addentrandoci si ha la percezione che ci sia dell’atro, il padre per l’appunto è un fannullone, e un violento, quindi il “lavoro” della mamma tocca la tacca dell’umiliazione, definitivamente. Più giù ed è chiara l’incapacità di tutto il sistema attorno al ragazzo nel fornire un aiuto, tanto per dire: l’allenatore è più un Kapò che un Mister (anche se si redime sul finale), la scuola punisce quando dovrebbe cercare di capire, e così ogni pietra si adagia sulle scapole di Idczak già martoriate dalla cinghia.

Quello che manca, e manca, sono delle competenze. Mancano: verso la fine il taglio di una scena è indecente, tremolio in primo piano e l’allenatore spaesato che guarda in camera. Al di là dell’episodio l’assenza di professionalità è un fardello che Fabicki non è in grado di scacciare via (inevitabile dato un budget che immagino da terzo mondo cinematografico), ad ogni modo la compensazione è data da una genuinità di fondo, laddove non arriva la tecnica ci arriva tossicchiando e tra mille affanni il cuore. Fabicki ha il merito di non cedere alla chiusura accomodante ed anche se in modo raffazzonato l’immagine di Idczak raggomitolato insieme al vecchio cagnolino (suo alter ego) dentro la gabbia, e il fratellino che gli sillaba di non uscire (fuori ci sono gli adulti, il dolore, il male, la cinghia) rimangono e fertilizzano.

Quindi: la polaroid del momento è data, forse anche di più, Fabicki con la sua camera a mano gradirebbe portarci nel freddo di quel campetto periferico, accettiamo l’invito ringraziandolo ma biasimandolo per non essere al livello che ci aspettavamo, poi, nel dirci addio, vediamo un lampo di Verità, in quello stacco che va dal volto in lacrime del bimbo alla schermata nera c’è dentro un universo.
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[1] Interessante notare che sul muro del campo di allenamento (in duro cemento) campeggiano gli stemmi di Milan, Barcelona e Ajax. In un quadro come quello illustrato quei simboli sì sportivi ma in realtà fortemente capitalistici stridono con la realtà che freddamente contemplano, sono miraggi, fari irraggiungibili puntati sul niente, su bambini che si accapigliano dietro ad un pallone spelacchiato.

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