sabato 2 aprile 2016

Forza maggiore

A coloro i quali non hanno visto nient’altro di Ruben Östlund che non sia Forza maggiore (2014), e ciò è plausibile dato che questo è l’unico suo film giunto nel Belpaese, dico subito che il regista svedese ha fatto di meglio, quel meglio è Play (2011). Perché il cinema di Östlund, forte del retaggio stilistico del connazionale Andersson, è improntato all’implosione della cosiddetta classe media attraverso un taglio sardonico e tra virgolette spietato. Un po’ come Seidl, anche lui ha sempre utilizzato i canoni dell’ironia contaminata per parametrare le miserie dell’uomo odierno posto nell’abbiente società, compassione non ce n’è mai stata, vetriolo, al contrario, in abbondanza. Però Turist (titolo originale) è due o tre passi indietro al suo più recente predecessore, senza andare a riprendere i lavori ancora precedenti perché piuttosto acerbi (ad esclusione dell’interessante corto Incident by a Bank, 2009), è Play a svettare per solidità tramica ed annessa coniugazione espositiva (uno stile nell’impasse, statico, frontale) con bersagliamento riuscito dei moderni drammi adolescenziali. Al confronto Forza maggiore perde molto di quel rigore estetico per instradarsi di più nella consuetudine visiva (è mica per questo che si è guadagnato la distribuzione italica?), ed anche sul piano tematico va incontro ad una debolezza non da poco; mi è parso, in fondo, che il progressivo inaridimento della coppia non abbia una morsa così potente, anzi parlare di morsa è troppo, si assoda perlopiù la disamina della distruzione sentimentale ma senza accenti memorabili. Tuttavia nel discorso di Östlund potrebbe esserci spazio per un ulteriore approfondimento. Potrebbe eh, perché il rischio di sovrainterpretare è concreto.

Allora, una volta archiviate le questioni maggiormente evidenti, ovvero eccoci in un luogo abbacinante per il suo candore immacolato eppure sotto l’imbiancatura emerge un sito sepolcrale, ovvero la valanga è un evento inaspettato che fortunatamente non fa riportare danni fisici eppure le conseguenze risultano comunque gravissime, e una volta annotate le inquietudini coniugali che affiorano nell’isteria vacanziera, forse non rimane esclusivamente il disgregamento relazionale. Ripeto: forse, analizzando gli step del racconto, si ravvisa un ampliamento della figurazione che va oltre la crisi di Ebba e Tomas per andare a saettare l’Uomo Benestante di oggi: diciamo borghese? Borghese, presumibilmente con un buon lavoro, prestante, culturalmente preparato, un identikit che si adagia ad hoc sul padre il quale a causa di un fatto apparentemente superfluo vede la propria esistenza deflagrare in brandelli squadernando l’incapacità di saper “dirigere” una famiglia. Tutte le figure maschili del film rappresentano l’istanza del fallimento e la preoccupante incapacità di governare il presente, ad esempio abbiamo il coniuge di un’ospite della struttura che in accordo con la compagna ha una condotta sessuale libertina, ed anche l’amico barbuto, già separato con due figli in Norvegia, è lì in vacanza con una ragazzina parecchio più giovane che, tra l’altro, gli soffia addosso il dubbio di una possibile irresponsabilità al cospetto di un’eventuale valanga. E nel finale, anticipato da un falso pre-finale che ricostruisce in maniera fittizia il puzzle consanguineo, è nuovamente un uomo coetaneo di quelli che abbiamo visto durante la proiezione ad incagliarsi col pullman nei tornanti di una tortuosa strada di montagna.

Difficile capire se negli intenti di Östlund ci sia davvero l’additamento verso quei soggetti che attualmente dovrebbero guidare la società, o se sia soltanto lungimiranza personale, se volete attenervi alle certezze qui di sicuro si vagliano i vuoti di una coppia come potremmo essere noi, l’ardore cinefilo sonnecchia, un possibile sussulto, ammessa la legittimità, è dato dall’estensione esegetica di cui sopra.

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