venerdì 22 aprile 2016

A Hijacking

Oceano Indiano: su una nave mercantile danese irrompono i pirati somali.

R (2010) ha rappresentato una discreta codifica del reale attraverso un cinema narrativo, e grazie ad un tale approccio il film ha potuto esaltarsi per mezzo delle sue soffocanti spirali drammatiche, vere e proprie trasposizioni infernali all’interno di un carcere in Danimarca. Due anni dopo Tobias Lindholm, uno che solitamente sceneggia per Vinterberg, ci riprova senza il collega Michael Noer e dà alla luce Kapringen, opera che si ispira a fatti realmente accaduti e che cerca di assumere i medesimi connotati del film precedente; anche qui Lindholm abbonda di camera a mano per buona parte del girato riprendendo i suoi attori (due di essi reduci proprio da R) nelle anguste stanzette della nave trasmettendo un senso di claustrofobia e un puzzo di sudore che se proprio non ti si appiccicano addosso perlomeno sono capaci di sfiorare anche gli animi meno sensibili. Ciò che essenzialmente cambia è la struttura della storia che in A Hijacking trova forma in un pingpong tra l’imbarcazione dirottata dai pirati e tra gli uffici della compagnia di navigazione dove il CEO aiutato dai suoi collaboratori tenta di negoziare via telefono con i banditi.

Se sul cargo c’è una certa fibrillazione implementata dal metodo di Lindholm, in Europa, all’interno della sede, la vicenda dell’amministratore delegato all’affannosa ricerca di denaro per soddisfare le richieste piratesche non ha la medesima forza di quella che riguarda il cuoco nel cuore dell’oceano. Le porzioni da thriller diplomatico mal si coniugano con i segmenti sulla barca, chiaro che Lindholm si è volutamente adoperato nel far risaltare il più possibile la divergenza tra i due mondi (anche cromatica: neon vs. penombra), però visto nell’insieme il continuo botta & risposta non riesce a celare delle debolezze che si riconducono a diversi ordini: tipo quello del “sano” coinvolgimento (l’interesse scema nell’osservare gli ostacoli che si presentano durante la trattativa fra buoni e cattivi), quello della tensione (troppa disparità fra i somali armati di fucile e gli uomini in giacca e cravatta dall’altra parte del globo) e quello della descrizione (mi riferisco soprattutto alla scrittura del personaggio principale ammantata di sentimentalismo [la faccenda della moglie e della figlia] e alla non-scrittura di tutti gli altri che sono davvero, troppo, esili).

L’accenno al fatto che i rapitori siano nella stessa condizione dei rapiti è, appunto, solo un accenno che scaturisce da un breve dialogo tra Mikkel e Omar e che non viene approfondito più di tanto, peccato perché uno scavo in questa direzione avrebbe potuto dare al film un attestato di ricerca oltre al compitino facile facile. Bruttino anche il finale a mio avviso, l’inserimento (forzato) di un colpo di scena del genere produce l’effetto contrario: l’impennata drammatica risulta artificiosa (tutto il contrario di quanto succedeva in R), e per un film che vorrebbe masticare il reale è inamissibile concedersi uno scivolone di tal fatta.

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