martedì 5 gennaio 2016

Pigs

Trasfigurare la favola dei Tre porcellini nella dimensione incubica di un sonno angosciante, penetrare nelle pieghe di un possibile, piccolo, inferno, spalancare indeterminatamente il ventaglio delle possibilità; l’incandescenza arancione di una lampadina, gli scotennamenti, il totem, il lupo, la capienza semiotica, le immagini fiondate. Questo è Pigs (2011), proiettile weird partorito dall’allora ventottenne Konstantina Kotzamani che scava nelle nostre zone umide, nei laghi sotterranei dell’inconscio, e qui sosta, tremulo, affabulando con la distorsione fonica, la filastrocca inquietata, non c’è via d’uscita come non vi è entrata, la fine, d’altronde, coincide con l’inizio nel campo di grano, cantilena ammorbata: che cosa sei?

Non sei, che è già essere.

Pigs, a conti fatti una delle migliori prove nel campo del cortometraggio apparse in questo spaziucolo virtuale, pur avendo una carica seduttiva letale e un grado di fascinazione che non ha nulla, ma davvero nulla, da invidiare ad un Lynch di turno, mette il sottoscritto in completo imbarazzo: non so cosa scrivere. Sì, potrei rendere onore alla Kotzamani per la tessitura climatica della sua opera (ma credo si capisca già dal trafiletto sopra), così come sarebbe giusto sottolineare i molti accorgimenti adottati per incutere quel timore che si avverte durante la proiezione (uno non lo si può tacere: l’occhio registico dietro lo spigolo dei muri, il guardare e ritrarsi, il riguardare e vedere un’altra cosa, un’altra realtà), oppure ci si potrebbe avventurare in circonlocuzioni ermeneutiche che fioriscono e appassiscono in un vortice (la benda: l’innocenza; la casa: entrare nel vivere; i maiali: il vivere della famiglia [l’allattamento]; il lupo: il male che contamina [la ragazza che dopo ne indossa il manto]). Ma presumo che non ce ne sia la necessità, tali accenni allungabrodo sono già troppo, non c’è niente da capire in un non-film come Pigs perché il cinema soprasensibile che proviene da mondi ulteriori può trovare compimento solo nello sguardo del testimone e non sul lattescente documento Word che ho adesso di fronte.

Di Konstantina Kotzamani, ne sono convinto, si parlerà.

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