sabato 1 novembre 2014

Autogenesi

Questo post non esiste. È stato scritto nel futuro per vivere nel passato. Nessuno lo leggerà. Questo è confortante.
 
Lei ha aperto le gambe, invitandomi ad entrare.
Da questa distanza è tutto più chiaro: la mia piccola testa ripiena di materia celebrale e la sua cruna dall’incendiante fuoco umido, vicine, a pochi millimetri, una distanza che va soppressa, forza! Le carrucole gengivali gettano un ponte: è la mia lingua! Da timida umettatrice si trasforma in flagello arrovellato nelle frattaglie salate e tenta di spingersi oltre la sua esigua lunghezza, roteando e spiralizzando l’ammasso di piccoli lembi che si trova a rimestare. Ma è troppo poco. Il buco è calamita, è sirena che chiama a sé. Vi lascio tutte le albe che volete, ora è il mio momento, ora, io, entro. Scivolo sulla sua pelle, sento tra le giunture degli arti che i corpi sono vicini alla tensione assoluta, c’è una nuvola elettrica che ci avvolge, ci sono lampi che flashano la stanza, tuoni fragorosi che coprono i versi neolitici partoriti dalle mie corde vocali, afferro il pene alla radice per indirizzarlo là dentro, per compiere il gesto: alla prima spinta pelvica lei svanisce, ed anche tutto il resto si smaterializza. Non c’è più il letto cigolante, non c’è più la scrivania con sopra l’obsoleto pc, non ci sono più le mensole zeppe di libri ordinati in misura decrescente, dai più grandi ai più piccoli, non ci sono più i poster adolescenziali mai staccati dalle pareti, non c’è più lo scotch fossilizzato che, per qualche inspiegabile legge chimica, li teneva ancora appiccicati, non ci sono nemmeno più le pareti, né il pavimento e quello che dovrebbe starci a ridosso, tipo travi, tubi, mattoni, non c’è nemmeno l’appartamento al piano di sotto, che se la vecchietta potesse vedermi sgranerebbe un rosario lungo novanta metri, non c’è più un sotto o un sopra: ci sono solo io, e, lontana, appena percettibile, una voce simile a quella di A. Hegarty che canta cose dolcissime ed inquietanti. Eppure, nel non-spazio in cui mi trovo, non riesco a stare fermo, una forza oltre me obbliga i miei addominali a contrarsi, ed ogni strappo è sempre più violento, ed ogni spinta pelvica nel vuoto è una frustata ammutolente, sento che la spina dorsale si sta facendo elastica slegandosi dalle normali costrizioni ossee. È così che succede allora? Un altro colpo. È così che ci si genera? Un altro ancora. Big-bang umano: la mia schiena è totalmente arcuata, sono uno yo-yo costretto da questa forza anonima a spingere con gli ultimi, residuali, tessuti muscolari, verso il mio ultimo buco, la bocca. Roteo come un derviscio appallottolato nell’aria amniotica, le mani arpionano i femorali, da qui la punta del pene è un mostro che si avvicina minaccioso, la fessura uretrale è una voragine che mi squaderna la sua natura di spiraglio su un mare lattiginoso. Cerco di serrare la bocca, digrigno i denti, ma è tutto inutile, divento la bandiera bianca di me stesso, autoaffondo, così, volteggiando in questo circolo che non ha più niente di sessuale, è tutto dolore e puzza e disagio, il cazzo, il mio, si introduce nel palato con ferrea propulsione, non posso fermarlo, cosa sono diventato?, il movimento pendolare, anche se incapsulato nella girandola-me, non vuole placarsi, il glande entra ed esce, entra ed esce quel tanto che basta.
Per venire.
Hegarty o chi per lui smette di cantare. Un calore si irradia fuori e dentro quello che convenzionalmente ho sempre chiamato “io”. È una marea pacifica in cui sento di voler affogare. Adesso è tutto molto più complicato.
Adesso niente è più chiaro.
Adesso vi spiego tutto.
Adesso nasco.
Adesso.

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