giovedì 14 febbraio 2013

L

Un uomo vive in simbiosi con la sua automobile fino a che…

Oramai è impossibile lasciarsi sfuggire un nuovo film proveniente dalla penisola ellenica perché siamo a conoscenza di come da due o tre anni un gruppetto di artisti greci stia facendo sul serio, per cui visionare l’ultimo prodotto della scuderia capitanata da Lanthimos non è un’eventualità, è un obbligo. Anche perché L (2012), diretto dall’esordiente nel lungometraggio Babis Makridis, è co-sceneggiato da Efthymis Filippou, nient’altro che la penna all’origine di due pellicole apprezzate dal pubblico (non solo quello di nicchia) e premiate dalla critica: Dogtooth (2009) e Alps (2011).      
È davanti agli occhi di tutti che questa corrente greca sta proponendo un tipo di cinema veramente originale il cui sguardo sebbene non privo di un certo retaggio europeo (cito ancora Ulrich Seidl) ha disorientato orde di cinefili nel suo ritrarre con tempere artiche e con l’alfabeto dell’assurdo un’umanità alienata, chirurgicamente dissanguata e restituita così: paranoica, automatica, robotizzata. Makridis prosegue tale tracciato perché la dimensione di L è ugualmente scentrata e l’autista al pari di tutti gli altri personaggi è un burattino nel teatro della farsa; tutta la fauna umana enunciata si muove in modo illogico e asserisce cose per buona parte insensate. Come sappiamo non è una novità ma la percezione è che ad L manchi qualcosa.

Vediamo cosa: latita il circuito parossistico degli altri film che sebbene disseminato di bislaccherie al momento topico era capace di trasmettere quel messaggio e di scatenare quella reazione pavloviana nello spettatore che di riflesso annuiva assorto. Si intuisce che Makridis voglia raccontare dell’altro al di là di un uomo (nonché padre e amico) che è un tutt’uno con il suo mezzo di trasporto, e il passaggio dalla macchina alla motocicletta e in ultima battuta dalla moto alla barca con tanto di canzoncina riverente quando poco prima proprio il corriere di miele aveva detto che non sarebbe mai salito su un natante, suggeriscono forse le intenzioni del regista nell’illustrare a modo suo l’immedesimarsi della società con ciò che materialmente le appartiene, e di conseguenza mostrare il singolo uomo totalmente identificato (e si badi che l’identità con annessi e connessi è corpo centrale nella new wave greca) con il proprio status di guidatore o di motociclista, d’altronde le due fazioni sono aspramente contrapposte e non solo è impensabile stare da entrambe le parti ma soprattutto una volta scaduta la patente della moto non ha nemmeno più senso vivere (la scena della “visita medica” resta impressa), tuttavia il disegno sottotestuale, gli obiettivi specifici oltre la mera trama, non arrivano come dovrebbero, non colpiscono, si narcotizzano all’interno dei siparietti colmi di sfacciate strampalaggini incapaci di fungere da spina dorsale (vogliamo parlare dell’amico-orso?), impregnando perciò l’opera di un’eccentricità solipsistica, una copia incolore del raccontare tramite un registro bislacco meccanismi traslabili nella nostra realtà. Questa è la forza di Lanthimos, questo è ciò che manca a Makridis.     

Futile divagazione.
Lo sceneggiatore Filippou avrà molti meriti e non sarà il caso di riconoscerglieli ulteriormente, su un aspetto però vorrei porre l’accento; possiamo dire che le idee alla base di Alps ed L siano riuscite e intriganti, non possiamo dire altrettanto sulla loro seminalità visto che rispettivamente Sion Sono (Noriko’s Dinner Table, 2005) e Simon Staho (Dag och natt [2004]; Bang Bang Orangutang [2005]) avevano già sfruttato concetti simili seppur con fini e metodologie differenti. E anche Dogtooth ha qualche debituccio nei confronti di The Castle of Purity (1973), in quest’ultimo caso ciò non inficia nulla ma rimarcarlo era doveroso.

4 commenti:

  1. Dopo aver letto questo post, me l'ero segnato subito, ansioso di vederlo. Finalmente, stasera lo vedrò: non vedo l'ora! Adoro Lanthimos e questa new wave del cinema greco, che ben sopperisce alla mancanza di quel genio che fu Angelopoulos. Ripasso per il commento, mi premeva solo ringraziarti per la segnalazione, perché doveroso.

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  2. Concordo su Lanthimos ma io questo film l'ho trovato inferiore ai suoi standard. Magari tu che sei un attento cinefilo (quando riesco ti leggo con piacere) scoverai aspetti a me sfuggiti.
    Poi fammi sapere!

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    1. Mah, un po' troppe aspettative mi han rovinato il film: okay, è un buon film e tutto il resto, ma, secondo me, risente troppo nell'essere un'opera prima (i continui rimandi a Lanthimos, il suo indugiare onanistico sui primi piani eccetera). Di certo, però, ha delle cose interessanti, come per esempio il fatto identitario (attivo o passivo?), alcune analisi marxiste (l'improduttività che lo porta a suicidare la macchina) ecc. Lanthimos, lo preferisco anche io, ma, a quanto pare, anche 'sto Makridis ha qualcosa di interessante da dire. Secondo me, farà dei gran bei film.

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  3. Più che altro ciò che risente di più è proprio l'essere venuto dopo Lanthimos. Non dico che questo Makridis scimmiotti il collega perché sarei ingiusto, però la sensazione è che il regista in questione non sia riuscito a trovare un'impronta personale da fornire all'opera che risulta un'appendice difettosa del cinema di Lanthimos. E tra l'altro c'è chi come la Tsangari ha dimostrato bene che si può far parte della corrente principale senza scadere nell'imitazione.

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