lunedì 12 marzo 2012

Foster Child

È difficile credere che la mano dietro a Foster Child (2007) sia la stessa del contemporaneo Pantasya. Quest’ultimo è un film che sembra un vademecum su come NON fare un film: insensato nella sua testardaggine pruriginosa, prosciugato emotivamente da una suddivisione in capitoletti scollegati gli uni dagli altri, ridicolizzato da interpretazioni attoriali sotto il limite della decenza, banalizzato da un digitale omologante.
Ci voleva davvero poco per far di meglio, e tale opera coetanea pur non entrando nell’ordine dell’indispensabilità, ha perlomeno quelle qualità di base che ogni spettatore si aspetta di vedere in una pellicola: c’è una storia, c’è la voglia di esporla, c’è un’idea di modo, ci sono interpreti che garantiscono un minimo di credibilità, c’è un bimbo delizioso con cui si empatizza immediatamente.

Lo spirito di fondo è all’incirca quello che avevamo potuto osservare in Manoro (2006), ossia l’intenzione di ritrarre le frange più povere delle Filippine tramite un canale quanto più vicino alla realtà. Diciamo che qui la componente documentaristica è relegata in un cantuccio per dare più spazio alla fiction, ma ad ogni modo il materiale trattato è parecchio aderente alla quotidianità della vita a Manila e perciò la sensazione che trasuda dall’opera è quella di una discreta commistione fra le due categorie. L’interesse verso la storia del piccolo John-John viene proprio sollecitato e solleticato da questa presa realistica che Mendoza cura – finalmente – con una certa professionalità. All’interno della baraccopoli il regista filippino ci va giù pesante con la macchina a mano diventando lo stalker dei suoi personaggi che pedina su e giù per le viuzze del termitaio tutto lamiere e ubriaconi. Al contempo appoggia il piede sul pedale dell’emotività intessendo le relazioni tra il pupo di casa e i vari componenti della famiglia, con punte di suggerita tenerezza quando il “fratellino” più grande si prende cura di lui.

Ma è con il costituirsi della parte lontana dal quartiere degradato che il film svela le sue intenzioni. Intenzioni concentrate sul sistema adottivo che vige in quella zona geografica. La prassi è particolare perché gli orfanelli prima di essere adottati da famiglie più abbienti vengono “parcheggiati” (anche per anni) fra le amorevoli braccia delle mamme locali. Così nella contrapposizione fra mancanza (una doccia fatta con la manichetta) e abbondanza (una doccia ultramoderna ma poco funzionale), ne esce fuori il profilo sincero di una donna profondamente umana, materialmente misera, spiritualmente ricchissima, una donna che ha amato John-John proprio come se fosse stato il suo vero figlio.

Foster Child è una tappa importante nella carriera di Brillante Mendoza, un vero e proprio punto di inizio che lo porterà da qui in avanti nei festival più rinomati del mondo.
E noi confermiamo, perché il film, soprattutto se rapportato ai suoi predecessori, ha più meriti che difetti, quindi mi permetto di affermare che se si vuole conoscere l’arte mendoziana conviene partire da The Masseur (2005) per poi passare direttamente a questo.

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