martedì 30 novembre 2010

Devil

Due parole sul film di John Erick Dowdle. (occhio che spoilero)
Al di là dei giudizi assoluti (è bello? È brutto?), lo spettatore medio che si appresta a vedere Devil (2010) va incontro ad un’opera che lo rassicura dicendogli cose che vorrebbe sentirsi dire, sempre. Il che non significa che tali cose trovino un riscontro plausibile al di fuori del contesto filmico…
L’impostazione è quasi elementare, sullo schermo vengono contrapposti in serie due principi antitetici dove uno legittima la presenza dell’altro:
- se c’è il bene c’è anche il male
- se c’è il Diavolo (la vecchia) c’è anche Dio (il sudamericano)
- se c’è una panoramica aerea rovesciata (bell’idea) ce n’è anche una normale

E via dicendo. La presenza di queste simmetrie opposte che non lascia spazio a vie di mezzo, o si è buoni (il poliziotto, le guardie, il manutentore) o si è cattivi (i cinque piccoli indiani nell’ascensore), trasporta la pellicola in territori pressoché favolistici, d’altronde Devil è prodotto da Shyamalan e c’è un vero e proprio racconto d’infanzia usato come trait d’union, che non fanno sfuggire la conclusione ad un moralistico e urticante lieto fine: se c’è il pentimento c’è anche il perdono. Auch.
Tenetevi i soldini in tasca e statevene a casa che fa un freddo porco fuori.

domenica 28 novembre 2010

Posetitel muzeya

Appena tre anni dopo Dead Man’s Letters (1986) Lopušanskij pone nuovamente il suo occhio su un mondo di macerie e dolore dove non è una guerra nucleare a trasformare la Terra nella succursale dell’inferno, ma lo scioglimento dei ghiacciai. Il titolo che tradotto suonerebbe più o meno come Un visitatore al museo, allude all’arrivo di un “turista” nella periferia soffocata da montagne di rifiuti che vuole sfruttare la bassa marea per raggiungere una misteriosa città sommersa dalle acque. Nel frattempo la comunità di reietti che vive rinchiusa in una riserva aspetta un salvatore.

Posetitel muzeya (1989) cerca di attrarre a sé lo spettatore fin dai primi minuti con il protagonista che voltandosi repentinamente sul traghetto chiede più volte “chi sei?”. Delirio di un pazzo visionario o, appunto, tentativo di coinvolgimento finanche forma di partecipazione nel contesto filmico? Entrambe le cose, probabilmente.
E la partecipazione emotiva c’è fin dall’inizio, magari non tocca le vette di disperazione del precedente film, ma c’è e segue di pari passo una narrazione abbastanza classica dove l’idea del viaggio verso il Museo è l’evento macro al quale si affianca la presenza della comunità di mostri reclusi in un recinto che col passare dei minuti assume sempre più una posizione di primo piano.
In questo quadro si staglia una netta distinzione tra le persone “normali” e i freaks: i primi hanno abbandonato dio inteso come insieme di valori per affidarsi alla razionalità, i secondi hanno ancora un culto ridotto al lumicino di una e una sola preghiera: “lasciami uscire da qui”, nella speranza che arrivi un uomo in grado di raggiungere la Collina della città sommersa e salvarli tutti.

Lopušanskij esalta le sue doti visionarie affidando cromaticamente il set al rosso come colore dominante che filtra oltre le finestre delle abitazioni a causa dei fuochi incessanti che tengono lontani i balordi deformi. Il buio si riempie di sfumature e ghirigori rossastri in grado di illuminare di striscio i volti ossuti, spigolosi e smagriti degli attori in una resa complessiva che mi ha riportato all’esteticamente superbo Almanac of Fall (1984) di Tarr.
Negli ambienti esterni si scontrano due elementi naturali come il fuoco e l’acqua del mare per creare un forte contrasto pressoché artistico. Inoltre il trenino che cigolante viaggia lungo territori abbandonati, la fabbrica che appare davvero come un girone infernale, le scene di massa che hanno un che di kolossale e gli enormi, maccheddico, immensi cumuli di spazzatura che rendono gli uomini piccolissimi, testimoniano un cinema pensato da un autore di indiscutibile valore.

Fino a qui, come diceva qualcuno, tutto bene.
Quando però il regista inizia a giocare a carte scoperte rivelando la vera natura del protagonista e decentrando un poco il tema del viaggio per dare più spazio alla folla di emarginati, il film si sfalda e degenera in una spirale mistico-religiosa di jodorowskiana memoria rivelando un sottotesto che si allontana dalla fantascienza per sondare territori te(le)ologici in un delirio/martirio bello da vedere per l’inquietante cerimonia d’investitura e per le riprese nel deserto della bassa marea, ma un po’ freddino a causa dell’eccessiva lunghezza da cui è costituito.
Il film ha però un notevole colpo di coda che vede il protagonista giungere finalmente ai piedi di Dio. La domanda “chi sei” non trova risposta, Cristo non è sulla croce perché non è morto per salvarci, e il vento senza fine spazza qualunque residuo di speranza. Alla fine resta l’uomo solo e impazzito in una valle di rifiuti che corre verso un tramonto accecante. La metafora è, al di là di tutto, comunque ficcante.

sabato 27 novembre 2010

giovedì 25 novembre 2010

Dag och natt

Può un film essere avvincente, formalmente solido e significativamente pregno raccontando il lento sgretolarsi dei tanti piccoli tasselli che compongono un mosaico prossimo alla rovina attraverso un unico sguardo, un’unica fonte di conoscenza visiva e non? La risposta è positiva, può, e Simon Staho ce lo dimostra.
Dag och natt (2004, il titolo internazionale sarebbe Day and Night ma siccome non è stato distribuito in alcun paese anglofono ho lasciato quello originale) è un film che rafforza la mia idea di cinema, ovvero che la storia, qualunque essa sia, acquista più o meno valore a seconda di come viene raccontata.
L’assunto da cui la pellicola si dipana è decisamente usurato: un uomo di nome Thomas (Mikael Persbrandt), padre degenere, marito alcolizzato, fratello aberrante e figlio menefreghista, prima di partire per New York (ma la meta del viaggio è un’altra) decide di dire addio alle persone che per forza di cose hanno ruotato intorno alla sua vita.

Fin qui nulla da dire, se non fosse che tutto (TUTTO!) il film è ambientato all’interno di un’automobile dove le immagini riprese da due camere posizionate sul cruscotto, e puntate verso i due sedili, sono state montate ad arte dando vita ad un scorrevolissimo fiume di parole lungo un’ora e mezza curato oltre che dallo stesso Staho, anche da Peter Asmussen collaboratore di Von Trier ne Le onde del destino (1996) e nel fondamentale Daisy Diamond (2007).
Addentrandoci nella domanda posta all’inizio, ecco che ne sorge un’altra: come è possibile che uno sguardo unidirezionale come quello proposto dal regista danese risulti così efficace nel mostrare la pluralità dell’uomo Thomas (è padre ma anche figlio, è marito ma anche fratello) ad un passo dalla distruzione? Cioè, come accidenti è possibile che senza sapere, e soprattutto vedere, nulla del suo mondo di cartapesta non solo accettiamo il suo status di aspirante suicida ma veniamo risucchiati nei pessimi rapporti col figlio – gli uccide il canarino e ammette di non aver mai voluto essere padre –, nell’amore sciatto con la sua donna – l’amplesso in piedi fuori dalla macchina è pregevole –, nella conversazione con l’ex moglie – nostalgico dialogo del passato –, nelle rivelazioni con la sorella – anche l’incesto si incastra perfettamente nel distruttivo quadro del film –, nell’incontro con la madre malata – una spiaggia, la donna bendata quasi fuori campo e lui con una pistola puntata alla tempia –, nel vacuo contatto con una prostituta – la sua inettitudine si evidenzia qui come non mai –, negli ultimi minuti del film – la pioggia e il sedile del passeggero vuoto – come si diventa, dunque, realmente partecipi di un’opera che da una parte ha poco a che vedere col cinema ma che al contempo ne forgia una nuova declinazione?
Onestamente non lo so, però è successo e ne sono felice.

Quello che invece so è che il cinema di Staho si sta profilando come un Cinema del Dolore, cattivo, duro, senza pietà alcuna verso lo spettatore, e compatto, compattissimo, nella sua struttura.
Ci sono molti film che ripercorrono la vita di un uomo che sta per morire, come ci sono stati altrettanti modi usati per descrivere ciò, Dag och natt è una gelida ventata di novità che credo non abbia eguali. Se è vero che prima di morire si rivede la propria esistenza come in un film, bene, questo è un film che assembla gli ultimi pezzetti di una vita poco prima che essa abbia fine, e lo fa con una grossa premessa anticipatrice che comunque non inficia minimante nella sua fruizione. Già, perché inizia così:

Per la maggior parte delle persone martedì 9 settembre 2003 era un giorno come gli altri. Tuttavia per una persona questo giorno era speciale, proprio in questo giorno il quarantenne Thomas Ekman, un rispettato architetto e uomo di famiglia si sparerà un colpo in testa alle 8 e 03 usando una pistola Walther GSP comprata per tale scopo.

L’anno successivo Staho firmerà il film-fotocopia Bang Bang Orangutang.

martedì 23 novembre 2010

The Social Network

IL CINEMA COME TRAGITTO
(breve dissertazione sulla filmografia di David Fincher alla luce del suo ultimo lavoro)

David Fincher, regista che ha le potenzialità per diventare uno dei massimi del nostro tempo, è un autore trasversale. Il suo viaggio filmico inizia nella fantascienza con Alien³ (1992), pellicola dalla travagliata lavorazione che il sottoscritto non ha visto, e prosegue negli anni successivi con un concentramento di forze su un cinema che ripercorre e che si fa a sua volta percorso. Seven (1995) segna l’indagine di due detective sulle tracce di un serial killer, la scia di sangue viene seguita passo dopo passo dal regista in maniera assolutamente programmatica, vizio dopo vizio in un movimento lineare che va dall’inizio alla fine.
Tralasciando The Game (1997), buon titolo con un grande cast ma che come da nome assomiglia di più a un divertissement, giungiamo a Fight Club (1999), pellicola assurta a culto più per l’enorme successo di pubblico che per le reali qualità. Qui Fincher cammina su una strada già battuta da Palahniuk, la ripercorre indagando l’uomo consumatore alle soglie del nuovo millennio, ma non si limita a questo perché il suo occhio si muove nell’introduzione all’interno del sistema nervoso di Norton per poi fuoriuscire da uno dei pori della sua pelle, compiendo così un tragitto impossibile reso possibile dalla sua diegetizzazione.
Anche in un film apparentemente sigillato come Panic Room (2002) si ha un virtuoso spostamento nello spazio oltre i limiti fisici; l’entrata dei ladri nella casa è accompagnata da una mdp che attraversa oggetti e pareti fino ad infilarsi nel buco di una serratura.
La tappa successiva è Zodiac (2007), antitesi di Seven, vera prova di maturazione e picco della carriera, che inverte la tendenza del movimento unito allo scorrere del tempo per invischiare i protagonisti in una ricerca che non li condurrà a niente, facendoli così girare (avvitare su se stessi) a vuoto per la durata di tutto il film. Questo cambiamento apre i battenti a Il curioso caso di Benjamin Button (2008), film troppo bistrattato che implementa la disposizione del precedente dove Fincher non disloca più il suo cine-movimento da A a Z – da un poliziotto verso la risoluzione del caso – ma da Z a A, dalla fine all’inizio, dalla vecchiaia alla giovinezza.

Si arriva dunque a quella che per ora è la meta del viaggio: The Social Network (2010). Opera più classica nei continui campi controcampi e dal ritmo serrato per il ping-pong di salti temporali fra il passato recente e il presente.
In relazione a quanto scritto sopra, nella sua ultima fatica il Fincher-pensiero pone il cinema come luogo di percorso nel quale attraverso la ritensione viene ri-percorsa la genesi di un fenomeno quanto mai “social” della nostra vita: Facebook. Sotto una certa angolazione potremmo dire che il regista sifermi, vuoi per l’evidente staticità delle riprese vuoi per l’attualità degli argomenti che non sembrano avere sviluppi tangibili. Ma a mio modo di vedere l’arte movimentata dell’autore si getta in un futuro, il nostro, dove l’arrivismo è il credo a cui prostrarsi, l’amicizia è sacrificata per il denaro, i soldi muovono le idee e non il contrario, la responsabilità della relazione è sancita da una scritta. Niente di nuovo, certo, ma le ombre gettate da Fincher suonano come moniti; in quel microcosmo della vita che è Facebook la fama arriva solo con tanti amici, e non contatti: amici. A sua volta l’amicizia è disumanamente ridotta ad un click, la condivisione è soltanto una massificazione che perpetra forme di egoismo (ho visto gente arrabbiarsi per un link “rubato”), il tag invade l’intimità, trascina dentro contro la propria volontà, e la chat è una stanza in cui le persone hanno spessi tappi alle orecchie.
Il tragitto fincheriano questa volta si muove in avanti perciò, suggerisce quello che potrebbe accadere – e in pratica già accade – profetizzando un Uomo che non è nemmeno più in grado di stringere virtualmente amicizia con un suo simile (Mark che tentenna nell’addare la sua ex) e che mette in dubbio quella frase di Brad Pitt per cui c’è da chiedersi se siamo ancora le cose che possediamo o se non ci identifichiamo nemmeno più in quelle. L’ultimo movimento di David Fincher, il più invisibile ma anche il più pessimisticamente significativo, ci ha avvertito: saranno tempi duri quelli che hanno da venire.

sabato 20 novembre 2010

Sulla mia (non) cinefilia

Dopo tre anni di blog ho sentito la necessità di scrivere queste righe perché più mi sono cimentato nella sua stesura, più ci ho messo me stesso, più mi ha fatto faticare, soffrire, emozionare (ebbene sì, c’ho un cuoricino di marzapane io), e più una domanda appesantiva la mia coscienza: sono un cinefilo?
Tecnicamente questo spazio virtuale non era nato per parlare di cinema perché chi lo gestiva non ne sapeva e non ne sa niente tutt’ora, col passare dei post ha poi iniziato a farlo in qualche modo e lo farà sicuramente fino a quando, sempre in qualche modo, morirà.
Quindi il quesito che mi pongo è più che legittimo, ma prima di dare una risposta voglio dire chi secondo me è un cinefilo.

Un cinefilo non è quello che guarda tanti film, manco per il cazzo. Se vi credete affetti da cinefilia solo perché avete visto in divx la filmografia completa di un regista cambogiano allora siete sulla strada sbagliata. Un cinefilo è prima di tutto una persona che va al cinema. È così. Il Cinema, ovvero la parola che comprende tutte le sfaccettature della settima arte, ha il suo habitat naturale nel cinema, nei seggiolini, nel fascio di luce del proiettore, nel silenzio e nel buio della sala. A casa no, a casa non vale. È come professare amore incondizionato ad una squadra di calcio e non essere mai andati, o esserci andati poche volte, allo stadio per vederla.

Ma un cinefilo è anche tale se legge, se si informa, se discute, se colleziona, se parla e sente parlare di cinema. È poca cosa scarabocchiare un foglio word con le impressioni suscitate da un film, liberissimi di farlo, certo, ma ciò non vi farà acquisire lo status di cinefilo.
Detto questo, io non sono un cinefilo.
Perché delle migliaia di parole che avrò scritto in questi tre anni sul cinema, sono poche, davvero poche quelle sputate dopo una visione in sala. Almeno il 90% delle pellicole da me viste l’ho indegnamente scaricato, ed ogni volta che il download raggiungeva il completamento, una piccola pietruzza si aggregava a quella valanga rotolante che oltre a chiedermi cosa sono, schizzava qua e là dell’etico fango. Come potrei mai professarmi cinefilo se sono il primo (il primo!) ad affossare questa forma di espressione andando poco al cinema, comprando pochissimi dvd, leggendo svogliatamente qualche recensione e assuefacendomi alle criptiche parole di Ghezzi? Non mi professo per un par di palle, non sono un cinefilo e bon.

Ma allora, direte a ragione voi, perché continuare a riempire codesto spazio con parole che non avrebbero ragion d’essere? Perché mi piace scrivere. E il fatto che io scriva sul cinema è solo un particolare, ho imboccato questa strada come avrei potuto fare con un’altra; mi piace scrivere e soprattutto scrivermi, e ciò comporta una misera esistenza in funzione di un commento data la necessaria conseguenza dello scrivere che è quella di essere letti.
Se quel 20 novembre del 2007 non avessi pubblicato questo post probabilmente la mia vita nei tre anni a seguire non sarebbe stata la stessa. Magari oggi non avrei la più pallida idea di chi siano Tsai Ming-liang o Sharunas Bartas e avrei speso in altra maniera il tempo che ho impiegato per edificare questo traballante blog, ma di contro la mia esistenza sociale ne avrebbe gioito, forse sì, senza di esso ora sarei più stupido di quel che sono, tuttavia non so davvero quanto ci abbia guadagnato a convivere 1095 giorni di fila davanti a uno schermo del pc.

A parte ‘ste chiacchiere Oltre il fondo giunge al suo terzo compleanno. Grazie a chi ha avuto e ha la bontà di leggerlo, a chi lo segue tutt’ora e a chi lo ha seguito.
Grazie!

venerdì 19 novembre 2010

Blues metropolitano

Film corale ambientato a Napoli dove l’organizzazione di un concerto si intreccia con la vita delle persone che in un modo o nell’altro ne prendono parte.

Poco da dire, la terza pellicola di Piscicelli è parecchio bruttina. Già l’aspetto visivo non è particolarmente significativo visto che Blues metropolitano (1985) si avvicina molto ad una fiction televisiva toccandone anche l’essenza, inoltre è palese una certa superficialità nell’illustrare gli spaccati esistenziali dei vari personaggi che costituiscono le note monocorde di uno spartito abbastanza piatto. La commedia leggera sarebbe anche accettabile se non fosse puntellata da picchi di drammaticità (i tipi che si fanno di eroina) fuori sincrono.
Evidenti le stonature con Ida Di Benedetto che insulta la figlia dandole della puttana dopo averla pizzicata a letto con il playboy di turno Tony Tarallo (lol) nel segmento più imbarazzante del film. Alcuni personaggi toccano il puro macchiettismo, altri si connotano almeno di qualche spunto in grado di divertire, vedi il fratello gay.

Poi c’è il discorso musicale; perché il film è intriso di musica, anche la più disparata, dall’apertura con Pino Daniele fino alla sua conclusione. Le melodie, infatti, accompagnano in sottofondo tutte le scenette che compongono l’opera. Forse da questo punto di vista la pellicola può essere osservata sotto una luce diversa, ma poco m’importa onestamente.
Nel cast anche Barbara d’Urso (ebbene sì) e Marina Suma.

mercoledì 17 novembre 2010

Last Life in the Universe

Pen-Ek Ratanaruang. Non è uno scioglilingua ma il nome di un altro regista che riempirà le pagine di Oltre il fondo da qui ai prossimi mesi. Thailandese classe ’62, studia al Pratt Institute di New York dal 1977 al 1985, nel ’93 inizia la sua collaborazione con la Film Factory di Bangkok per la quale gira alcuni spot pubblicitari grazie ai quali vince un paio di premi. Nel ’97 debutta sul grande schermo con Fun Bar Karaoke, quello che accade dopo lo scopriremo insieme.

Last Life in the Universe (2003, distribuito da noi in dvd) è una produzione interculturale che vede davanti alla mdp un famoso attore giapponese come Tadanobu Asano, già all’opera in alcuni film di Kitano, Tsukamoto e Miike, quest’ultimo presente nei panni di un mafiosetto della Yakuza, e dietro la mdp la sapiente mano di Christopher Doyle, direttore della fotografia che ha collaborato e collabora spesso con registi orientali.
Tale varietà di persone, culture e credenze, in fondo non influisce su quello che è un argomento rintracciabile in molte pellicole dagli occhi a mandorla degli ultimi 10-15 anni, ossia la distanza che intercorre fra le persone. Se mi chiedeste di fare due esempi vi risponderei subito con l’immagine ripetuta di due braccia tese che si incontrano, le prime in Ferro 3 (2004) e le seconde in The Hole (1998), due istantanee di grande cinema paradigmatiche di questo profondo cruccio che come detto pare interessare non poco molti registi dell’est: quanto sono distanti le persone? Quanto lo sono da loro stessi?

Il film di Pen-Ek non si focalizza soltanto su tale questione ma va a toccare altri due argomenti universali come la morte e, ovviamente, anche l’amore.
So che ad una lettura sbrigativa l’affrontare di questi argomenti potrebbe risultare stucchevole ai vostri occhi, ed anche ai miei. Ma se un po’ avete imparato a conoscermi sapete del peso che per me ha il modo in cui viene raccontata una storia piuttosto che la storia in sé. E Tom Pannet (Ratanaruang si fa chiamare anche così) ha stile, gusto, tocco delicato nell’illustrare la solitudine del giapponese Kenji, una lucertola in cerca di calore, impossibilitato di darsi all’estasi, ovvero alla morte, che non riesce ad afferrare, e che anzi lo sberleffa uccidendo “per colpa sua” una ragazzina che niente poteva.
Anche qui lo sguardo su Kenji non è univoco, egli NON è soltanto l’apatico lettore di libri che non ne vuole sapere più niente dalla vita, ma è avvolto da un alone di indeterminatezza (il tatuaggio che gli copre la schiena è un tipico segno della malavita giapponese), forse non ottimale nella fruizione dei significati, che lo rendono una figura sfaccettata, a tratti enigmatica.

Sul versante dell’amore la sua impersonificazione la si ha con Noi, giovane ragazza all’esatto opposto di Kenji, disordinata, solare (ma non troppo), vitale, nella metafora animalesca lei è uno scarabeo, magari non dall’aspetto troppo grazioso ma in grado di volare, e infatti sarà lei ad andarsene su un aereo per Osaka. Anche Noi, come lui, ha un lato nascosto, magari meno indecifrabile ma che comunque c’è e si concretizza nella burrascosa relazione con il delinquentello in tuta militare. Ma il fattore che lega più di ogni altra cosa queste due differenti solitudini è la morte. La morte dei rispettivi fratelli. In sostanza si potrebbe dire che questo sia l’amore che nasce dalla morte, sebbene sia un amore che non si compie né si completa poiché si sedimenta dentro due interpreti parecchio lontani da una possibile vicinanza carnale. Ma resta comunque un antidoto contro la solitudine.

Come potrete aver capito i temi affrontati non sono una novità assoluta. Ratanaruang ha però la voglia di cercare strade diverse - molto bello il titolo che appare dopo mezz’ora di girato - pur dicendo cose che altri hanno già detto e anche meglio. E comunque permane un finale significativo dove viene rimessa in discussione la pellicola tutta, aprendo interessanti scenari in grado di dare nuovi significati ad altrettante visioni.

martedì 16 novembre 2010

Iracema

Leggevo dei commenti su IMDb relativi ad Angels of the Sun (2006) nei quali si diceva che se davvero si voleva soddisfare la sete di conoscenza sulla prostituzione in Brasile, il film giusto era sicuramente Iracema, opera più autentica sotto molti punti di vista. E poteva il vostro Eraserhead esimersi da tale visione? No, dico, poteva? Eccome se poteva! Con così tanta roba bella in giro che bisogno c’era di andare a dissotterrare uno sconosciuto filmetto brasiliano del 1976?
Che posso dirvi, scrivere in un blog che vorrebbe parlare di cinema senza saperne niente sull’argomento porta spesso ad atti compulsivi e impulsivi di (pseudo)cinefilia acuta, e quindi l’ho visto.

Tra l’altro, il tema che mi ha portato a Iracema, la schiavitù sessuale, e che mi aspettavo di trovare al suo interno, assume invece una posizione marginale poiché buona parte del film ha l’intenzione di mettere in mostra la profonda arretratezza rintracciabile nell’entroterra brasiliano del tempo.
Il viaggio della giovanissima prostituta Iracema a bordo del camion di Tião che l’ha “comperata” quasi per farsi tenere compagnia, rivela in quali condizioni versano gli abitanti dei vari luoghi. E così mentre dei politici parlano ad un tavolo di come la Transamazonica fosse la strada dritta e sicura per il progresso in grado di congiungere materialmente luoghi e persone che fino a quel momento erano collegate esclusivamente tramite la radio, nei fatti tali uomini sopravvivono in condizioni disumane lontane da qualunque forma di sostegno. La lungimiranza del potere stride nettamente con la realtà dei fatti in cui si comprano e vendono persone come fossero oggetti, i lavoratori sono sottopagati e le donne vengono abbandonate per strada una volta che di loro non c’è più bisogno.
Come dire, se le alti classi proiettano un Brasile nel futuro, il Brasile di quel momento è imbrigliato nell’arretratezza del suo presente.
Per la cronaca la Transamazonica che fu battuta nella foresta dall’esercito tra il ’69 e il ’74 non venne mai portata a termine. Resta uno dei progetti più costosi di sempre nel suo ambito nonché considerato da molti come un vero e proprio disastro ambientale.

La sostanza dell’opera è un’ibridazione che mescola fiction e documentario dal quale succhia tutta la voglia, nei limiti, di denunciare e sensibilizzare l’opinione pubblica dell’epoca. E un po’ ci riuscì arrivando anche da noi in un festival a Taormina. Detto questo è inutile negare la grezza veste costitutiva della pellicola che risulta estremamente povera oggi, e con ogni probabilità anche per gli spettatori di quel tempo.
I due registi Jorge Bodanzky e Orlando Senna non avevano evidentemente a disposizione molto materiale, né tecnico – la maggior parte delle scene, se non tutte, sono colte da un solo angolo di visuale, ovvero da un’unica cinepresa – e né umano – perché a parte Tião gli altri attori sono tutti (sor)presi nella loro misera quotidianità e lì con ogni probabilità sono rimasti –, ciò nonostante riescono a tenere in piedi la baracca. O forse ciò che mi fa credere che seppur rabberciato il film abbia una sua interezza è il finale, che quasi sorprendentemente ha un che di surreale con quelle battone ubriache marce che mostrano le tette alla mdp inconsapevoli, o noncuranti, di far parte di un film. Tião non crede più nel progresso della Transamazonica e se ne va verso altri luoghi speranzosi, Iracema, nient’altro che l’anagramma di “America”, resta in quella baracca sporca abitata da una manipolo di puttane sbronze.

Quell’utente di IMDb non aveva tutti i torti, forse…

domenica 14 novembre 2010

Per ora ti ascolto con felicità

Non mi metterò a parlare di musica, lo faccio a vanvera col cinema ed è sufficiente.
Non starò nemmeno a dire cose banali del tipo quanto è bello o quanto è brutto il nuovo album di Vasco Brondi. Risponderò solo se era ciò che mi aspettavo: sì, o meglio, era ciò che volevo ci fosse.
Mancherà l’impatto innovativo della spiaggia deturpata, mancherà. Eppure per uno come me che a volte va dietro alle cazzo di canzoni commerciali risentire quelle strofe sghembe, quelle parole disordinate, quelle distorsioni elettriche accompagnate da quelle struggenti melodie, mi ha fatto felice. E tanto.
Forse passerà, che a stare tanto tempo senza te c’avevo quasi fatto l’abitudine, ma per ora ti ascolto a occhi chiusi e ancora una volta mi ritrovo nelle tue insensatezze così simili alla vita, perciò grazie di cuore Vasco.

venerdì 12 novembre 2010

Face

Non è per niente facile parlare dell’ultimo film di Tsai Ming-liang (ma lo è mai stato in generale?) poiché esso oscilla ambiguamente, pur restando come al solito pressoché immobile, fra tante cose.
C’è in primis un’insistente ripresa del passato che va oltre la semplice rivisitazione per divenire attualizzazione: Jean Pierre Léaud è l’insofferente fantasma di un cinema che fu, scontroso, nostalgico, della sua corsa sulla spiaggia ne I quattrocento colpi (1959) rimangono solo dei rapidi fotogrammi. Indolente nei confronti del film su Salomè di Hsiao-Kang, ama (forse) la sempre indaffarata produttrice Fanny Ardant. Il passato (ri)diventa presente: la Ardant fu la donna di Truffaut, e Léaud, come ben saprete, divenne il suo alter ego in molti film.
Tsai aggiunge così un’altra declinazione al lemma cinema. Per fare due esempi: in Che ora è laggiù? (2001), film che per forza di cose è profondamente legato a questo, la settima arte è un ponte che collega in qualche modo l’esistenza di due persone; in Goodbye, Dragon Inn (2003) la platea deserta diviene metafora della vita e della morte cosiccome la morte e la vita assurgono a riflessione sul cinema.
Con Face (2009) il cinema diventa luogo di memoria, e ciò che ricorda è nient’altro che se stesso. Face è un museo (d’altronde è stato girato negli anfratti del Louvre), un elogio/a del ricordo. Ed essendo dunque un museo la voglia di percorrerlo, di gustarlo, ossia di viverlo, è direttamente proporzionale alla conoscenza che si ha dell’argomento. Se poco sapete della Nouvelle Vague, o più semplicemente poco vi interessa di questo movimento, nel visitare questo museo potreste non cogliere la totalità del suo senso, e questa è una barriera da non sottovalutare.Ma Tsai? Tutto il suo affascinante universo dov’è? All’incirca c’è, tuttavia allontanandosi per la prima volta da una metropoli (ok ok la scena si svolge a Parigi ma la storia è decisamente asettica) è difficile rintracciare nell’opera quei sentimenti che si levano ogni qual volta si assiste alle spietate trovate del regista. Inoltre Visage si complica perché al suo interno ci sono riferimenti che vanno al di là della sfera filmica tsaiana per entrare in quella personale dell’autore. Difatti per la prima volta Lee Kang-sheng veste i panni di un regista cinematografico, e qui già si avverte di come la vicenda tocchi potenzialmente l’autobiografia, in più la madre di Hsiao muore durante le riprese al Louvre e questo riporta alla realtà poiché Ming-liang ha perso realmente la mamma durante la scrittura del film, e infine nel campo lunghissimo che chiude la pellicola pare essere proprio lui a suggerire di come prendere il cervo fuggitivo a Hsiao, senza dimenticare che ad un certo punto vediamo su un muro l’ombra della macchina da presa, un’impronta quanto mai tangibile.
Paradossalmente, però, quello che sulla carta potrebbe essere il film più intimo di Tsai, nei fatti si presenta come uno dei meno incisivi data la sua tendenza a dissolversi in vari piani di lettura senza riuscire a centrarne l’obiettivo, qualunque esso fosse.

Allora è doveroso concentrarsi sul tema posto al centro dell’attenzione fin dal titolo: il volto.
Dice Tsai che: “Tutto è illusorio, così come il cinema, ma il volto delle illusioni esiste e deve essere conservato”. Si può concordare; il cinema è anche un’illusione che ha per protagonisti delle facce che non sono altro che delle maschere. L’attore impersona sempre qualcun altro in un gioco di sostituzioni. In Face ciò emerge qua e là senza suscitare troppo interesse. Vediamo Hsiao sdraiato nel letto udire sua madre battere la carne in cucina, successivamente le parti si invertiranno. Nel set imbiancato dalla neve artificiale (tutta l’acqua se n’è andata con l’iniziale esplosione del rubinetto) affiora il concetto della maschera implementato dalla presenza degli specchi che raddoppiano gli attori o forse li mettono a nudo, li smascherano, e la Casta pare soffrirne parecchio perché ricopre le superfici riflettenti con del nastro adesivo nero. Alla fine la chiosa giusta sembra suggerirla lo scorbutico Lèaud, che durante un’indimenticabile rievocazione di storici registi dove due persone che non riescono a comunicare trovano l’intesa grazie al cinema, indica un uccellino come l’unico superstite della scena, lui sarà solo alla fine perché non indossa nessuna maschera, perché non ha un’altra faccia.

Poi sì, Face verrà ricordato per le sue sfarzose scenografie che aggiungono una medaglia alla bacheca del regista. Laetitia Casta è un concentrato di sensualità come mai si era visto nella filmografia dell’autore, ed è protagonista dell’immagine più bella: un incontro al buio illuminato da un accendino, riproposizione della scena capolavoro de Il fiume (1997). Tuttavia l’aria solenne che circonda l’attrice unita ad una mancanza di ironia, e ricordo che i film di questo regista sono spesso imbevuti di tragica ironia, la rendono poco empatizzante nonché protagonista di un ruolo offuscato, leggermente opaco come il film nella sua sostanza è.
EDIT SUCCESSIVO

A distanza di un mese e mezzo dalla visione del film, con una conseguente e naturale macerazione dentro me di un’opera sicuramente importante, e in seguito alla lettura di alcune interviste fatte al regista unite a piccoli stralci di un documentario dedicato a Visage, se dovessi scrivere in questo momento un nuovo commento sarebbe sicuramente più positivo. Ça va sans dire, parlare di cinema, e soprattutto del cinema tsaiano, obbliga ad un’analisi che è come un’investigazione. E io nei panni di Sherlock Holmes a volte sono piuttosto impacciato.

giovedì 11 novembre 2010

Jestem

Da qualche parte in Polonia.
Un bambino fugge dall’orfanotrofio per ritornare a casa. La madre alcolizzata lo ripudia così si rifugia su una chiatta abbandonata dove fa conoscenza con una coetanea.

Jestem (2005) fu presentato in Italia al Giffoni Film Festival ’06. Non conosco con grande precisione i temi, gli argomenti, o più in generale la qualità che costituisce questa kermesse, ma è opinione comune, e opinione mia, pensare a tale Festival come fautore e promotore di un cinema per e sui ragazzi. Il che non va certamente visto sotto un’ottica dispregiativa, si tratta solamente della politica del concorso e sono certo che in 40 e passa edizioni siano stati presentati anche grandi film.
La pellicola di Dorota Kedzierzawska, però, sembra voler far propria l’espressione “cinema per ragazzi” precludendo ogni declinazione dell’adultità.
Attraverso una fotografia autunnale si racconta delle disavventure di questo povero bimbo che sembra accentrare su di sé l’ira – spesso incomprensibile come quella dei suoi pari età – di tutto il paesino. La condizione di abbandono in cui versa dovrebbe avere una forte componente drammatica poiché si tratta di un vero e proprio allontanamento dalla società, dagli affetti, dalla felicità, che ha per protagonista un ragazzetto di neanche 10 anni. Ahimè ciò a cui invece assistiamo è un’astrazione della realtà che vorrebbe connotarsi fiabescamente senza riuscirci.

E non ci riesce perché la discrepanza fra il racconto addolcificato in cui emergono disarmonicamente le dolorose situazioni della vicenda (si tratta pur sempre di un minorenne senza una casa, senza cibo, senza vestiti) e la percezione che abbiamo NOI della storia traslatamente applicabile nel mondo reale, è pressoché incolmabile.
Non avendo intenti di denuncia, e se li ha con le fugaci inquadrature dei ragazzini che si fanno di una qualche droga non riesce a soddisfarli, Jestem si interessa solo e soltanto all’improbabile condizione del suo protagonista (molto espressivo l’attorino) il quale è attorniato da figure fuori fuoco come la bambina con cui stringe amicizia che è già sulla strada dell’alcolismo (perché?), o la madre che lo rifiuta in preda a crisi isteriche senza una spiegazione plausibile.
Il motivo conduttore dell’opera impresso fin dal titolo con quel “io sono” appare poco credibile nonché fortemente romanzato, e l’eventualità che un fanciullo come questo sia nelle capacità di espletare una visione così negativa della vita, teorizza addirittura il suicidio!, risulta piuttosto impossibile. Cosiccome l’ultima battuta che suggerirebbe un’identificazione con se stesso derivante dal micro-martirio che ha vissuto.

martedì 9 novembre 2010

Liverpool

Si può vedere metaforicamente il cinema di Lisandro Alonso come la trasposizione su pellicola degli spazi bianchi tra una vignetta e l’altra di un fumetto. La sua arte ci mostra quel che accade prima del “poco dopo” attraverso fotogrammi di solito non detti giungendo a costruire un’intelaiatura che al pari dei tre film precedenti si interessa di più ai micro eventi che ai macro eventi.
Qua si ha un uomo, Farrell, che lasciata la nave mercantile in cui lavora si mette in viaggio verso il paesino natale per rivedere la madre malata. Oltre ad avere un paio di rimandi a Los muertos (2004) con le immagini di Farrell che assapora la libertà bevendo alcol e passando una serata al night, si nota pian piano che il ricongiungimento con la madre (evento macro, ossia ciò che dovrebbe fungere da asse portante nella storia) è scavalcato da scene che sfiorano l’antinarrazione: i preparativi per scendere dalla barca, il locandiere che discute via radio sulle condizioni atmosferiche, l’uomo anziano che controlla se qualche animale è caduto nelle sue trappole (eventi micro, parentesi, intermezzi dilatati al limite della sopportabilità).
Fintanto che quando avviene il fatidico incontro tra madre e figlio non ce ne accorgiamo nemmeno. Camera puntata sulla vecchia a letto, Farrell entra e iniziano a parlare. Punto.

Liverpool è un film che decentra quindi. Se non è il rapporto fra i due famigliari a trainare la storia allora è obbligatorio chiedersi che cosa Alonso volesse dire con questo film. E non ho trovato una risposta convincente. Ci sono dei possibili spunti da afferrare qua e là – il ruolo della ragazzina è tutto da (non) capire –, resta comunque un’operazione complicata che nasconde sempre dietro l’angolo il pericolo dello sbadiglio. L’anticonformismo di Alonso raggiunge l’apice quando “permette” al suo protagonista di svanire in un innevato campo lunghissimo che lo allontana per sempre dalla cinepresa. Non abbiamo saputo niente di lui né prima né durante e men che meno dopo la fine della pellicola.
Quello che resta invece è l’ambiente, che sia una giungla o i corridoi di un cinema, è nei luoghi e nei posti che si costituisce il cinema alonsiano, ma come detto all’inizio i suoi lavori sono spazi bianchi senza geografia e così il luogo diventa un non-luogo e il posto diventa un non-posto. E tali spazi vengono tradotti per noi dalla mdp in ambienti asettici e decontestualizzati.
Difficile da comprendere? È Lisandro Alonso.

domenica 7 novembre 2010

My Son, My Son, What Have Ye Done

My Son, My Son, What Have Ye Done (2009) è uno di quei film che nessun critico vorrebbe mai trattare. Il motivo sta nelle menti che lo hanno pensato: Werner Herzog e David Lynch.
Lo sguardo profondo dell’autore tedesco che non è sicuramente un pivellino nell’ambiente sebbene poco conosciuto rispetto a quanto meriterebbe, insieme al ciuffo del meditatore trascendentale che incombe prepotentemente fin dalla locandina, obbligano ad un’analisi necessariamente approfondita. Se questo film fosse un’opera prima i suddetti critici potrebbero anche dribblare la sua complessità tacciandola di confusione e poca dimestichezza col genere (alcuni lo hanno fatto), ma essendo partorita dall’estro di due registi faro del nostro tempo è doveroso apporvi sopra una lente d’ingrandimento.
E io che un critico non lo sono, di My son, my son provo a parlarne egualmente con parole più di pancia che di testa, in barba alla stratificazione che lo costituisce cercando di fornire una chiave di lettura evidentemente et indiscutibilmente soggettiva.
Bisogna muoversi innanzi tutto dalla concezione della pellicola basata solo sul crimine commesso; non può trattarsi esclusivamente di un figlio che uccide la propria madre perché intendendo l’opera in questo modo si attua una riduzione che sottovaluta il potenziale concretamente rintracciabile in essa.
Appurato che il primo livello di percezione/comprensione non è l’unico presente, è necessario fare due passi indietro e ripercorrere la carriera dell’Herzog regista lasciando da parte le possibili implicazioni di Lynch che a mio avviso non sono poi così importanti.
Fin dagli esordi (Fata Morgana, 1971) il cineasta ha ampiamente giocato con due crinali di uno stesso rilievo: documentario e fiction che fusi insieme hanno costituito una buona fetta del suo cinema. Opere in cui la realtà raccontata si confonde con la finzione sono estremamente numerose nella poetica herzoghiana. È in un certo senso una truffa, un inganno che spesso ha dato vita ad un pensiero metafisico, mistico, surreale, anche folle con quel Kinski che era l’incarnazione di Herzog sul set.
La follia è un elemento significativo nella sua carriera (si parla spesso di “eroi folli”), e tornando a bomba su questo film, lo è anche per il giovane protagonista Brad. Ecco un punto di contatto: questo è un film su un pazzo diretto da un regista che più volte e in maniera diversa ha affrontato il tema della pazzia.Avvicinando ancora di più la nostra lente di ingrandimento, ci si accorge di come Brad abbia commesso il suo tragico gesto a causa di una (con)fusione tra la vita che viveva e la vita fittizia - il ruolo che recitava in teatro -, dunque un mescolamento percettivo di finzione e realtà.
Egli uccide la madre come fa il protagonista della tragedia greca dando perciò corpo e fisionomia al cinema di Herzog sempre in bilico tra realtà raccontata e realtà romanzata. Ed essendo appunto “cinema” può essere visto da tutti – Brad ripete spesso che tutto il mondo lo sta guardando e le sequenze in un luogo esotico accompagnato da cori simili a quello di Orosei tanto cari a Werner rafforzano il concetto – ma al contempo si cela automaticamente al pubblico poiché Herzog è un autore che non è mai entrato dalla porta principale nel mondo dello star system (lo ha fatto forse per la prima volta a 67 anni con Il cattivo tenente, 2009) – e di rimando Brad non si vedrà mai durante il film se non attraverso il ricordo di chi gli è stato accanto: Udo Kier che ha gli stessi occhi di Kisnki, e Chloë Sevigny che possiede la medesima maternità di Eva Mattes –.
Dunque il passo decisivo è questo: Brad= cinema di Herzog.

Vieppiù che nella casa in cui l’assassino si barrica vivono due fenicotteri, animali appartenenti alla natura da sempre compagna (e nemica!) di viaggio del regista bavarese. Gli amici dicono che Brad sia cambiato dopo il viaggio in Perù, ed anche Herzog lo fu visto che nel paese sudamericano riprese per anni tra fango e sanguisughe le gesta di Fitzcarraldo (1982).
Permangono delle perplessità in pieno stile lynchiano a cui non si riesce dare risposta, tuttavia quello che sembrava essere un divertissement, una burla organizzata ad hoc da due compagnoni, è invece la prova più (indirettamente) autobiografica di Werner H. Stipetic che non è ancora stanco - per fortuna - di raccontare storie di spiriti inquieti, dei quali fa parte, a ritmo di fisarmonica.

Sparagli di nuovo la sua anima balla ancora!

Lasci perdere i fenicotteri. Io vedo struzzi, vedo struzzi che corrono.

venerdì 5 novembre 2010

Polytechnique

Penso al mio professore di fisica del liceo che con trasporto professionale cercava di spiegarci che cosa fosse l’entropia. A distanza di qualche anno l’ho dimenticato, l’unica cosa che ricordo è che a questa parola si associava quella di disordine, di caos, che in una materia così rigorosa come la fisica mi faceva specie. Poi risuonano nella mia testa le parole del professore di storia dell’arte che illustrava a noi alunni la tecnica di Picasso, anche qui ho dimenticato gran parte degli insegnamenti, rimembro soltanto una frase che diceva più o meno di come la sua pittura fosse il risultato di un movimento spaziale e intellettivo che associato alla staticità di un quadro mi faceva nuovamente specie (e chiedo venia a chi di queste cose ne sa davvero se ho scritto delle boiate).

Denis Villeneuve, regista canadese, per enucleare il massacro di Montreal avvenuto il 6 dicembre 1989 dove un uomo entrò in un politecnico con l’obiettivo di sterminare tutte le persone di sesso femminile che vi erano all’interno, utilizza le due nozioni citate prima attraverso riferimenti propri alla storia: le due ragazze che ripassano gli appunti sull’entropia e l’incombente riproduzione nel complesso universitario della Guernica, ma anche e soprattutto per modellare il suo racconto poiché il folle misogino armato di fucile che con il suo vagare all’interno dell’istituto tenta di stabilire un aberrante equilibrio senza donne è similare al concetto di disordine all’interno di un sistema specifico. Inoltre il taglio alla storia è dato da una visualizzazione tripartita al pari delle rappresentazioni picassiane: l’oggetto del racconto è l’eccidio, ma esso ci viene mostrato tramite tre sguardi (assassino, ragazza coi capelli corti, ragazzo con la barba) e tre momenti temporali (il prima, il mentre, il dopo) che donano più sfaccettature a quella che resta un’unica, terribile, tragedia.

Il tutto è poi inserito in una cornice d’arti(sti)co bianco e nero in cui un montaggio tanto spietato nel mettere a nudo l’impotenza dei più deboli a cospetto della folle malvagità di un uomo, quanto perfetto nel suo rigore estetico con algidi spostamenti di camera compensati dalle esplosioni del fucile che iniziano ben prima di quanto possiate immaginare, riesce in più a prendere per il naso lo spettatore per la natura atemporale di cui è costituito.
Brividi nella scena in cui il killer divide i maschi dalle femmine all’interno dell’aula, e qualche dubbio su un finale fatto di sgocciolante retorica. Ma al di là di questo Polytechnique resta un’opera eccellente e uno dei migliori film da me visti negli ultimi mesi.

giovedì 4 novembre 2010

Il cavallo di Tarr


Vlog de Michel Reilhac > Béla Tarr - Le cheval de Turin - Budapest from ARTE FRANCE on Vimeo.
A Torinói ló è bello che pronto.
La notizia risale a questa estate quando il 18 agosto Michel Reilhac, produttore francese, si è recato a Budapest nello studio di Tarr per ammirare il film completo. Questo video è il resoconto della giornata, ma siccome io e il francese non siamo in buoni rapporti se qualcuno sa cosa il tizio stia dicendo è pregato di riportarlo.
Non si sa quando il film uscirà, su IMDb dicono in Ungheria nel 2010, ma siccome l’anno è ormai agli sgoccioli proprio non so. Magari si attende una vetrina importante come il prossimo Festival di Cannes, aspettiamo…

mercoledì 3 novembre 2010

Dead Man's Letters

Interessantissimo post-apocalittico russo dell’86 diretto da un regista di nome Konstantin Lopušanskij già assistente di Tarkovskij in Stalker (1979) e tutt’ora in attività, il suo ultimo film è The Ugly Swans (2006).
Pellicola notevole perché sebbene vengano ricalcati (ottimamente) i soliti stilemi del genere, ovvero: ci troviamo in un mondo crepuscolare (il tempo viene difatti misurato “in crepuscoli”) dovuto ad una non precisata esplosione radioattiva, le strade appaiono come discariche in cui i palazzi sono ormai giganteschi scheletri pericolanti, i cadaveri affiorano qua e là a simbolo di una civiltà perduta, e i grappoli di umanità sopravvissuti cercano di arrangiarsi come possono, nonostante tutto questo, il film riesce davvero, ma dico davvero perché ho spesso sentito associare più volte immeritatamente a questo genere l’espressione “perdita della speranza”, a essere un film totalmente disperato, cupo, lontano da un qualsiasi tipo di salvezza, per noi e per i personaggi sullo schermo.

Ecco, i personaggi. Lopušanskij si concentra su un manipolo di uomini rinchiusi in quello che una volta era un museo (esposizione di un passato lontano ere ed ere dal presente), dove vive, tra gli altri, uno scienziato premio nobel per la fisica che ha perso il figlio durante il disastro nucleare. Le lettere del titolo, e qui notate di come la pellicola sia in partenza pessimistica perché lo scienziato è vivo, o forse non ancora del tutto morto, sono quelle che lui scrive immaginariamente al figlio perduto. Gli altri personaggi nonostante abbiano una caratterizzazione minima che li rende quasi indistinguibili nella penombra in cui sono rifugiati, ad esempio si sa al massimo che uno è il figlio di un altro, riescono a trasmettere un’inquietudine tangibile, e quando uno di loro si suicida dopo un discorso di fronte ai compagni, beh, la mia gola per un attimo si è ben bene annodata.

Esteticamente c’è qualche perplessità sulle immagini di repertorio che riprendono alcuni decolli missilistici con relative esplosioni che non si amalgamano granché con lo scenario maggiormente ripreso, tuttavia questi inserti suggeriscono una strana forma di nostalgia cinefila che anche in passato mi è capitato di provare laddove la presenza di alcune magagne è come legittimata dall’età che si porta appresso, e invece di pesare sul listino dei punti di debolezza ne aumenta il fascino complessivo.
Ad ogni modo le scenografie di Lopušanskij hanno un forte impatto visivo e credo che attribuirgli lo status di visionario non sia una bestemmia; l’iniziale carrellata all’indietro che mostra l’alcova dei sopravvissuti, la biblioteca allagata o l’ospedale con le urla dei bambini sono lì a testimoniare la sua creatività. Vieppiù che anche la scelta dei costumi è azzeccata con quelle maschere antigas che sembrano la rielaborazione di quelle de L’Eternauta, imprescindibile capolavoro del fumetto che pur parlando di un’invasione aliena ha più di un punto in comune con questo film. E poi non nascondo una certa angoscia nell’udire i respiri filtrati dalle suddette apparecchiature.

Se tutto questo non bastasse ad abbattere il vostro inguaribile ottimismo, ci pensa il finale sublime che avrebbe fatto la fortuna di un film come The Road (2009).
Lo scienziato in punto di morte afferma di fronte a dei bambini – o meglio, è uno di loro che ce lo riferisce quasi ci trovassimo di fronte ad un passaggio di testimone – che finché gli esseri umani cammineranno ci sarà speranza. Subito dopo vediamo otto bimbi con tanto di maschere inerpicarsi su per una salita avvolta dalla nebbia. Intorno non c’è niente, sono soli. E allora mi chiedo: dov’è la speranza?

Postilla.
Non ho trovato informazioni a riguardo, ma credo, anzi ne sono quasi certo, che il film non sia mai stato distribuito in paesi anglofoni e per questo motivo il titolo che vedete lassù è una semplice traduzione. Idem per la locandina che mi pare abbia ben poco di ufficiale.
Quando si presentano queste situazioni preferisco lasciare tutto in originale, stavolta farò un’eccezione.

EDIT:
come non detto, il film nonsocome ha anche un titolo italiano: Quellultimo giorno - Lettere da un uomo morto.

lunedì 1 novembre 2010

Reazione a catena

Nel bel mezzo della sua passeggiata per il centro di Roma il pensionato Vito De Pica fu colpito da un attacco di diarrea fulminante, piegato in due dai dolori allo stomaco si rifugiò nel bagno del McDonald’s di Piazza di Spagna dove espletò i suoi bisogni in 5 minuti e 34 secondi, poco dopo la trentenne Cristiana Comentini si recò alla stessa toilette, ma aprendo la porta fu investita da “un odore di merda terribile” come lei stessa affermò, così decise di mettersi in macchina con la vescica piena, e a causa dell’impellente necessità di svuotarla non notò per distrazione lo stop ad un incrocio e passò oltre a tutta velocità, nel mentre giungeva dalla parte opposta Gigi Barzella che stava sostenendo per la terza volta l’esame pratico di guida, e vedendosi arrivare spedita l’auto della Comentini alla sua sinistra fu preso dal panico e non pigiò nessun pedale rimanendo immobile, l’urto provocò un notevole frastuono che fece voltare Alberto Rossellino il quale stava parlando al telefonino con la sua fidanzata in erasmus universitario a Londra camminando sul marciapiede dove dei muratori avevano aperto una buca che il Rossellino non vide e nella quale inciampò perdendo il cellulare, la sua ragazza di nome Eliana Ravani uscì dallo Starbucks di Princes Street dove stava bevendo un caffellatte insieme a delle amiche e provò altre 4 volte a richiamare il fidanzato pensando che ci fossero problemi di linea, contemporaneamente un’automobile targata PVC-2 scattò per conto di Google Street View una foto nella quale la Ravani restò immortalata fuori dal locale con il telefono all’orecchio, due giorni dopo a Parigi in un albergo di Montparnasse una cellula islamica di Al-Qaeda stava progettando un attentato alla capitale inglese e il leader del gruppo mostrava agli altri componenti la conformazione del territorio tramite Google Earth che comprendeva anche una specifica analisi delle vie di Londra grazie alla visione di alcuni fotogrammi urbani, e in uno di questi apparve l’immagine di Princes Street con una ragazza in minigonna e maglietta scollata di fronte a una famosa catena di caffetterie, quella stessa sera il quarantenne iracheno Quasim Howal si masturbò nel letto della sua stanza d’hotel pensando alla ragazza della foto per poi pentirsene e leggere ad alta voce alcuni versi del Sacro Corano, dall’altra parte del muro il vecchio petroliere americano Jim Lameron non riuscendo a dormire per la nenia islamica chiamò il numero di una escort russa che un suo amico gli aveva dato, così Pavlova Temenovic Lunsin giunse alle 2 e 35 di notte e finì il suo servizio 2 ore dopo ricevendo in cambio 1800 dollari di cui 200 vennero utilizzati per comprare della cocaina che la donna consumò 2 settimane più tardi sul tavolino di un night club del distretto amministrativo moscovita di Zelenograd insieme ad un camionista ungherese denominato Zéla Barr il quale in seguito all’ingerimento di 12 bicchieri di vodka liscia si alzò dal suo posto tentando di raggiungere l’uscita per dare sfogo ai suoi succhi gastrici in rivolta, ma non riuscì nell’intento e vomitò l’anima sul palchetto dove le spogliarelliste si esibivano, il proprietario del locale Igor Almócovar, madre russa e padre spagnolo, lo trascinò fuori dal club per farlo riempire di botte da quattro buttafuori, tra questi l’ex carcerato Pokurov che rubò due anelli d’oro massiccio al camionista rivenduti poi sottobanco ad uno spacciatore di Kazan che gli diede come contropartita 83000 rubli, con quei soldi Pokurov si fece una piccola vacanza a Roma e come tutti i turisti smarriti si recò in un McDonald’s del centro, qui dopo aver mangiato 5 Bic Mac, 2 confezioni di Chicken McNuggets e un Mc Flurry extra large sentì la necessità di recarsi in bagno dove rilasciò due etti di feci, passarono cinque minuti e una donna che doveva far pipì si allontanò dalla toilette per la troppa puzza…