mercoledì 9 giugno 2010

Pleasant Days

Una lavanderia come luogo di sporcizie umane. Maja partorisce un bambino e lo vende per qualche euro a Marika, l’amica proprietaria. Il travaglio avviene fra i vestiti puliti del negozio mentre Péter, fratello di Marika fresco di riformatorio, spia la scena di nascosto.

Mi aspettavo il Mundruczó dei lavori recenti, raffinato ed originale, molto bravo a tessere atmosfere memorabili, e invece non l’ho trovato. Sembra un altro questo di Szép napok (2002), un altro Mundruczó meno personale, probabilmente acerbo, piuttosto claudicante nel proporre una storia che si mostra ripetitiva nella sostanza.
Ma andiamo per gradi. Già l’ambientazione della lavanderia è pressoché anonima, inoltre la scelta in più d’un’occasione di abbandonare le immagini alle luci naturali non si può definire brillante per la confusione che genera in una narrazione oltremodo disordinata di per sé. Anche se Johanna (2005) non sarà un capolavoro, si fa ricordare per la sua bellezza estetica in grado di sopperire, o almeno bilanciare, il poco ed inevitabile coinvolgimento di un film interamente cantato.

Poi la storia. Mah! Bruttarella forte con l’intreccio forzato che cerca di risucchiare più personaggi che può, state a sentire: Péter si innamora di Maja, incinta del suo migliore amico e a sua volta amicona della sorella Marika, ma a cadere fra le braccia di cupido per la bionda ossigenata è anche il ferramenta (o quel che diamine è) padre di famiglia datore di lavoro di Péter.
I meccanismi farraginosi si intestardiscono poi sulla reiterata ricerca da parte di tutti gli ometti del film di scoparsi Maja, riuscendoci, il quale ruolo di signorina licenziosa se lo guadagna fin dalla prima scena – come definireste una tipa che vende il proprio figlio? – senza che ci fosse bisogno di mostrarlo per tutta l’ora successiva della pellicola, perché così facendo viene a crearsi una fastidiosa eco che non porta al compimento della vicenda, ma la accartoccia su se stessa.
Lei, Orsi Tóth, si salva. Per chissà quale strampalata associazione di idee mi ricorda il grande James Wood, devono essere i suoi lineamenti nervosi, scattanti, le ossa a fior di pelle con uno sguardo da cerbiatto ferito che scioglierebbe chilometri di calotte polari. Più che altro Mundruczó le affida sempre ruoli in cui di riffa o di raffa finisce per essere sempre maltrattata dagli uomini, il che la trasporta dritta dritta nella culla del cuore di chi guarda. Nonostante sia una mezza puttana. Ne è prova l’empatia che si genera durante lo stupro finale in cui viene sbattuta e umiliata sull’asfalto. La scena è efficace, ma in Delta (2008), sempre con la Tóth suo malgrado protagonista, nella riproposizione violentemente sorda del campo lungo lo sarà molto di più.

Caro Kornél, Béla non sarà stato affatto fiero di te per questo film, no no.

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