sabato 26 giugno 2010

Cane che abbaia non morde

Mi accorgo ormai che l’opera prima di un regista riesce, molto spesso, ad essere simile – ma anche decisamente diversa – a quelle che seguiranno. È il caso di questo Flandersui gae (2000) in cui l’esordiente, ma già padrone piuttosto sicuro del mezzo, Bong semina frutti che rigogliosi nasceranno nelle opere successive con più maturità e gusto per il cinema. Perciò, è utile fare un distinguo:

COSA CAMBIA

Confrontando la pellicola con la filmografia di Bong traspare una mancata fluidità nelle interazioni fra i personaggi, ruggine a compartimenti stagni, che sono legati da fili un po’ troppo elaborati per risultare credibili. La meccanica che sorregge la psicologia dei vari ruoli è interessante ad un’analisi in profondità (vale più o meno per tutti la legge del più forte, anche se ammorbidita dal tono comico, in cui ognuno cerca di sopraffare l’altro) mentre a prima vista, nel mero flusso schermo-occhi, i tormenti dell’aspirante professore canicida risuonano artefatti, poco inclini all’immedesimazione.
La commedia – a mio parere vera marcia in più nella poetica bonghiana – è qui più grezza, a sprazzi slapstick, con però momenti divertenti come quando le due ragazzine assistono dal tetto di fronte all’uccisione del piccolo cane. Essa, però, non viene accompagnata dai ficcanti spilli di drammaticità del Bong che verrà, resta commedia, semplicemente.
Tecnicamente si capisce che il ragazzo ha stoffa. Soluzioni visive particolari come la miriade di persone con impermeabile giallo che “tifano” per la ragazzina o la nebbia avvolgente del pesticida costituiscono dei piacevoli accorgimenti; una cosa che invece, per fortuna, il regista non riprenderà in futuro sono i ralenti, ivi proposti in dose massiccia per enfatizzare gli eventi. In alcuni casi amplificano l’ilarità, ma al contempo risultano ridondanti.

COSA NON CAMBIA

Non cambia che, escludendo la mosca bianca The Host (2006), il traino della storia è sempre un’indagine; che sia su un serial killer o su un cagnolino scomparso, che siano dei poliziotti scombiccherati o una madre ostinata, persiste un sentimento di attesa per lo scioglimento dell’intrigo che funge da vero toccasana per lo spettatore. Certo, qua le cose sono un po’ diverse perché sappiamo chi è il colpevole, ciononostante si è perlomeno incuriositi da come andrà a finire.
E poi, da buona tradizione del cineasta, il reo rimane impunito, sconfessando così gli stilemi americani dei crime-movie. Ma se in Memories of Murder (2003) l’assassino era quasi un’entità astratta che gravava sulle teste dei poveri detective, qui viene palesato fin da subito posando l’attenzione più sulla realtà sociale in cui è calata la vicenda. È un’operazione tutto sommato valida, anche perché focalizzarsi solo ed esclusivamente sulle sparizioni dei due o tre cagnolini avrebbe prosciugato la pellicola.
La quale non è pregna di senso come Madre (2009), e ci sta anche che non lo sia, ma che tuttavia ha la necessaria dignità per farsi seguire.

Nessun commento:

Posta un commento