lunedì 7 settembre 2009

Beautiful

È lui o non è lui? Certo che non è lui.
Sto parlando di Kim Ki-duk, e pensandoci bene tutta ‘sta certezza sulla paternità di Beautiful non è troppo rassicurante viste le sue ultime prove cinematografiche con la parziale eccezione di Dream (2008). Non c’è lui dietro la mdp, quindi, ma il suo assistente Juhn Jai-Hong che racconta una storia scritta (e prodotta) dal maestro coreano.
Protagonista è Eun-yeong la cui bellezza fa inchinare ai suoi tacchi a spillo eserciti di uomini. Tanto bella quanto sfuggente, al punto che un tipo follemente innamorato decide di coniugare al presente indicativo il verbo penetrare: prima in casa di Eun-young e poi dentro di lei, senza il suo consenso. Dopodiché la ragazza sanguina da una ferita invisibile fino a prosciugarsi la mente, vaga nella città seguita come un’ombra da un poliziotto divenuto angelo custode della morte, la sua.
Già nel confuso Time (2006) Kim si era avventurato nelle (poco) logiche dell’attrazione sessuale del nostro tempo. Evidentemente non pago di questa esperienza, scrive un film che riprende in sostanza gli stessi meccanismi (il cambiamento per essere accettati) ed ottiene i medesimi risultati. Ma più che confusione, da Beautiful traspira una superficialità che lo rende sterile. Spesso i film di KKD, e generalizzando anche un po’ tutti i film orientali, sono una riserva mirabolante di idee e spunti che una volta assorbiti strisciano fino al cervello facendoti Pensare.
Se von Trier dice che un film deve essere come un sassolino in una scarpa, Beautiful non riesce nemmeno ad essere un granello di sabbia: scorre via senza rimanere incastrato dentro chi lo guarda.
Perché ciò? Beh, innanzitutto la protagonista. Brava l’attrice, bravissima, ma il suo character non potrà mai riscontrare troppo affetto. Come può stare simpatica una tipa che snobba gli uomini facendoli impazzire per la sua bellezza? E allora sia che venga stuprata (nonché sverginata), che perda il lume della ragione ingozzandosi di panini – pubblicità occulta a McDonald’s come se piovesse –, o che si consumi fino a scomparire, sono tutti avvenimenti che non sfiorano granché lo spettatore, in particolare se è uno spettatore maschile.
Inoltre si ripete più volte una sequenza pressoché identica: Eun-young che sviene per motivi imprecisati, che vomita a mucchietti (come fa?), e che viene salvata dallo sbirro. Con la speranza che sia una scena pensata per sottolineare con l’evidenziatore la presenza del poliziotto altresì confondibile con qualunque altro spasimante, e non una roba ripetuta per allungare il brodo, mi viene spontaneo dire che una, massimo due volte era sufficiente.
Se Kim pecca così nella sceneggiatura, il suo discepolo Juhn non verrà ricordato per la regia che non riesce a toccare le corde giuste vestendo il film di un brutto abito occidentale. Manca quel momento squisitamente kimmiano che fa brillare gli occhi, lungo o impercettibile che sia, per cui si può saltare a piè pari sopra le magagne del testo.

Leggo qua e là che il finale è stato apprezzato nonostante tutto. Ne convengo, nello specifico mi sono piaciuti molto i minuti seguenti all’immagine qua sotto. Gli unici istanti in cui Eun-young sembra una persona. Viva.

Nessun commento:

Posta un commento