mercoledì 6 maggio 2009

Genova

Joe (Colin Firth), professore universitario di Chicago, perde la moglie in un incidente stradale al quale sopravvivono miracolosamente le due figlie Kelly (Willa Holland) e Mary (Perla Haney-Jardine). Distrutta la famiglia, il padre cerca di ricomporre i cocci dell’anima portando le sue due ragazze a Genova per una vacanza estiva. Nel capoluogo ligure la piccola Mary ha delle fugaci visioni della madre morta, mentre il legame famigliare sembra sfilacciarsi sempre più.

Fabrizio De André diceva che Genova è la città dei rimpianti, quando ci sei la odi, ma quando vai via ti manca. Paolo Conte ha impresso nelle note il timore di un foresto che si reca nella Superba: “che ben sicuri mai non siamo/che quel posto dove andiamo/non c’inghiotte e non torniamo più.” Guccini, forse meglio di qualunque altro esponente del cantautorato genovese, ha reso la città in poche (e splendide) parole: “schiacciata sul mare, sembra cercare respiro al largo, verso l'orizzonte. […] c'è traffico, mare e accento danzante e vicoli da camminare.”

Winterbottom, durante la prima (e unica, non avendo il film a tutt’oggi una distribuzione) italiana, proiettata nelle sale del Cineplex genovese, ha sottolineato di come questa storia avrebbe potuto essere ambientata in qualunque altra città. Ma il labirinto di stradine del centro storico ha un’atmosfera particolare: un sottile senso di mistero affascinante, e al contempo sconcertante. È la trasposizione fisica della confusione mentale dei personaggi.
E in effetti il regista inglese ha ragione. Forse però sbaglia a dire che potrebbe essere ambientato in qualunque altra città, magari in qualunque altra città di mare, sì.

Per quanto mi riguarda il giudizio non può che essere sbilanciato per ragioni di cuore o zone limitrofe, e per questo devo fare un plauso a Winterbottom che presosi l’onere di intitolare la sua opera col nome della città, non la relega ai margini, ma con uno stile quasi documentaristico la rende parte integrante della storia dandole un ruolo terapeutico per la famiglia in crisi.
All’inizio, con le battute da guida della Michelin, temevo in una sequela di banalità del tipo: “Colombo era genovese e w la pasta al pesto.” Invece nel prosieguo viene abbandonata questa intenzione didattico-folcloristica, riprendendo Genova senza filtri, nella sua bellezza amara, angusta, ombrosa, ma a volte così solare: la sopraelevata, palazzo San Giorgio, via Garibaldi, e poi giù, nei vicoli, nel cuore della città. Padre e figlie, inglesi trapiantati nella fredda Chicago, si ritrovano nel dedalo inestricabile di vie e viuzze, tra puttane accaldate su sedie di vimini e odore di piscio che s’infila su per le narici. Le ectoplasmiche apparizioni della madre fungono da filo d’Arianna che guida le tre anime disperse a ritrovarsi. Ne vale la scena finale in cui il fantasma della mamma svanisce nell’esatto punto in cui Joe, Kelly e Mary si uniranno nell’abbraccio conclusivo.
L’aspetto soprannaturale non interessa a Winterbottom che si concentra più sul lato umano, interiore, psicologico. I turbamenti adolescenziali di Kelly, l’insicurezza di Joe diviso tra l’amore di una sua allieva e l’attrazione verso una vecchia amica e la disperazione della piccola Mary che urla il nome della sua mamma di notte, sono le “malattie” che affliggono i tre protagonisti, Genova sarà la loro “cura”.
Beh, l’ho detto. Non posso che sbilanciarmi verso un giudizio positivo perché è la città dove sono nato. Escludendo Giorni e nuvole (2007) non l’avevo mai vista sul grande schermo, e devo ammettere che fa un certo effetto rivedere le strade che tante volte ho percorso. Non so se sia realmente un luogo speciale perché la mia considerazione è per forza di cose faziosa, ma l’opinione di quei tre signori citati all'inizio, e quella di Winterbottom, mi fanno propendere per un obiettivo sì.

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