venerdì 14 novembre 2008

Il bosco fuori

Lo sguardo languido del bambino è la cosa più penetrante di tutto il film. Più di un braccio asportato con la motosega, più del colon anguillesco che sguscia dallo stomaco, più di una bugna ricolma di pus (maionese?), più di tre coatti romani impasticcati, più di coltelli che infilzano la carne, più delle pallottole ficcate nel cranio, e anche più di un povero bambino mutilato. Non ricordo chi aveva detto che uno sguardo è irripetibile, ma aveva ragione. Oltre gli occhi del piccolo cannibale si dipana un film che rende omaggio alle brughiere insanguinate del Texas, non per niente in Giappone è stato distribuito come Italian chainsaw, e alla violenza brutale di Craven, non per niente in America è giunto col nome di The last house in the wood, solo che qui i personaggi si muovono in un contesto geografico parecchio strano: i castelli romani. Mettendo da parte, se si vuole, il “profumo” artigianale che si respira per tutto il film, e soprassedendo ad una fotografia scorretta durante le riprese notturne, Il bosco fuori è un horror che ho gradito, si lascia vedere tutto d’un fiato.Questo perché a fine proiezione mi sono chiesto quale horror italiano degli ultimi dieci anni sia degno di nota, e sinceramente non ho trovato una risposta accettabile, anche perché ormai qui da noi questo genere è passato in secondo piano, quindi credo che solo i produttori più coraggiosi vogliano investire in questo campo, e sicuramente i Manetti Bros (Piano 17, 2005) sono annoverabili in questa categoria, anche perché se non sbaglio (ma non sbaglio) i due fratelli collaboravano con Marco Giusti alla trasmissione Stracult e quindi sono parecchio competenti in materia. Ma i registi non sono loro! Quindi onore a Gabriele Albanesi che ha definito il film “un delirio iperrealista, una storia di apocalisse e redenzione, è un sogno ad occhi aperti di una ragazza precipitata nell’orrore.Ed in fine, un viaggio nella memoria del cinema di genere e un ritorno alle origini dell’horror italiano”. Sulla seconda parte sono d’accordo, ma più che un ritorno alle origini lo definirei un punto di partenza su cui lavorare per il futuro, senza ovviamente dimenticare il passato. Per la prima parte avrei qualche dubbio. E soltanto perché è un film italiano. Giuro. Se questo fosse l’ultimo film di Aja o di Rob Zombie sarei estremamente entusiasta, purtroppo però ho riso sotto i baffi sentendo dialoghi da Centovetrine nei primi minuti, e vedendo i tre tamarri romani (che tra l’altro sono i personaggi meglio riusciti a mio avviso). Sarà questa forte esterofilia con cui sono cresciuto, però mi viene davvero difficile pensare ad un (bel) film horror italiano nel nuovo millennio. A giovani e volenterosi registi come Ivan Zuccon (La casa sfuggita, 2002), Andrea Falcioni (Il cerchio dei morti, 2007) e lo stesso Gabrieli Albanesi, il compito di farmi cambiare idea.

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